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Dolceroma

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VOTO: 7

La grande bellezza senza bellezza

Dolceroma è il primo lungometraggio che Fabio Resinaro ha realizzato da solo, senza cioè il sodale Fabio Guaglione a firmare con lui la regia. Già questo era sufficiente ad accendere la nostra curiosità. Sì, perché ciò che il rodato binomio Fabio & Fabio ha prodotto nel corso degli anni, a partire da quei corti e mediometraggi di qualità superiore alla media nazionale, per approdare poi all’originale rapporto coi generi espresso nel lungometraggio d’esordio Mine, aveva saputo spesso entusiasmarci.
In questa nuova avventura Fabio Resinaro si è trovato a gestire valido materiale narrativo, ossia la sulfurea traccia offerta dal romanzo di Pino Corrias “Dormiremo da vecchi”, avvalendosi poi della collaborazione di Fausto Brizzi quale story editor e di un cast di primissima scelta. Il risultato è un film che, seppur con qualche squilibrio, graffia la superficie di una Città Eterna rappresentata in modo estremamente lisergico, facendo uscire allo scoperto malumori, ambizioni, mondanità, sogni cinefili e incubi partoriti da cinematografari incalliti. Ci si diverte anche parecchio, di fronte a certi grotteschi personaggi. Ma con un sorriso sempre pronto a trasformarsi in smorfia disgustata.
Il succo di una sceneggiatura talmente articolata, finanche eccessiva nel continuo affastellarsi di impulsi diversi, ha comunque nella perdita dell’innocenza un possibile baricentro, un tema ricorrente. A partire ovviamente dalla turbinosa parabola del protagonista Andrea Serrano: interpretato da un convincente Lorenzo Richelmy, il personaggio del giovane scrittore/sceneggiatore frustrato nel quotidiano cui viene finalmente offerta l’occasione della vita è un Faust di periferia, solo apparentemente ingenuo, ma già pronto in realtà ad assorbire e a farsi corrompere dalle peggiori tossine della Roma che conta.

Ecco, se da un lato abbiamo apprezzato lo stile eclettico col quale Resinaro è venuto incontro a simili urgenze narrative, ci troviamo parzialmente in disaccordo col contenuto di alcune sue dichiarazioni, da noi intercettate in conferenza stampa: “Il mio approccio non era quello di andare a descrivere la Roma dei salotti o di creare una satira di un mondo conosciuto solo dagli addetti ai lavori e pochi altri. La mia intenzione era di mettere sullo sfondo di una vicenda più personale, che riguardasse dei personaggi, un affresco di una città che diventa un contenitore metaforico di un “dolce veleno” che li intrappola in una spirale viziosa; che è però sempre funzionale alla tensione narrativa e serve per potenziare sia il Thriller che la Commedia e non ha nessuna intenzione di essere una critica.
Perché in disaccordo? Perché anche se non era quella l’intenzione principale, evidentemente, la critica di certi ambienti esce comunque fuori alla distanza e lo fa maledettamente bene. Arriviamo anzi a provocare ulteriormente l’autore, mettendo nero su bianco quanto segue: nei momenti delle feste in qualche villino miliardario e negli incontri al vertice della Roma bene, negli intrallazzi dei cinematografari e nella fame di successo dei giovanotti di belle speranze, Dolceroma diviene quasi controcanto dell’acclamato lungometraggio di Sorrentino, La grande bellezza, o per meglio dire della sua pars destruens. Difatti La grande bellezza di concessioni alla magia immortale dell’Urbe se ne concede comunque parecchie. Qui la bellezza residuale sopravvive giusto nell’orgoglio di un’attricetta destinata comunque a una brutta fine o nell’elegante sensualità di una Claudia Gerini splendente come non mai, specialmente dopo un bagno al miele che sguardi più volgari non sapranno nemmeno apprezzare. Scorie di innocenza, declinate peraltro solo al femminile. E difatti lo stesso Andrea Serrano potrebbe ricordare un Jep Gambardella agli esordi, in procinto di farsi fagocitare da quel mondo rancido, se non fosse che a salvare in calcio d’angolo il personaggio di Toni Servillo ancora si percepiva in Sorrentino un salutare distacco, una onesta ammissione dei troppi compromessi raggiunti: qualcosa di più simile, magari, all’atteggiamento sbruffone ma in fondo consapevole dello sgradevole produttore cinematografico Oscar Martello, mentore in Dolceroma di Andrea Serrano, alla cui figura Luca Barbareschi aderisce con fin troppa facilità: quasi un autodafé programmato, per lui.

Confessate tali sensazioni, senza dubbio personali, resta da dire che il discorso sui generi e i personaggi accennato da Resinaro regge invece alla grande. Il regista dimostra innanzitutto, per l’ennesima volta, di maneggiare l’action, il noir e la commedia grottesca con grande disinvoltura, anche quando certi stilemi vengono evocati da segmenti metacinematografici o da altre sequenze dotate di una loro autonomia. A tratti pare quasi di assistere alla sommessa rivolta di set più artigianali, di un cinema di genere realizzato con genuina passione, nei confronti di quella pacchianeria spesso esibita nelle fiction italiane di oggi o nelle produzioni cinematografiche mainstream, anche qualora esse si ammantino di una pseudo-autorialità non suffragata poi da particolari pregi registici e narrativi. Qui è da sottolineare positivamente lo spirito goliardico e auto-ironico con cui Luca Vecchi, uno degli artefici di The Pills, ha saputo mettersi in gioco, andando a interpretare proprio uno dei personaggi che in cuor suo sicuramente detesta, ovvero il giovane cineasta tronfio e fintamente autoriale in grado da solo di far naufragare le riprese di un film. Aggiungiamo pure i nomi di Valentina Bellè, Libero De Rienzo, Iaia Forte e del redivivo Armando De Razza, avremo così la misura di quanto un cast coraggiosamente anarchico e stravagante abbia inciso, nella realizzazione di una follia cinematografica così spregiudicata, ironica ed urticante da intrattenere piacevolmente lo spettatore, lanciando comunque qualche dardo avvelenato verso il sistema.

Stefano Coccia

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