Uomini piccoli e piccoli uomini
La parola chiave, per entrare nel cinema recente di Matteo Garrone, è trasfigurazione. Quel processo attraverso cui il reale diventa cinema, inteso come libera reinterpretazione artistica.
A monte, come fonte d’ispirazione, troviamo uno dei delitti più efferati che sconvolsero le cronache di trent’anni orsono: il cosiddetto “Delitto del Canaro della Magliana”, avvenuto nel popolare quartiere romano nel 1988. Garrone sposta l’azione ai giorni (più o meno) nostri e ricrea un litorale periferico romano (Ostia?) nelle suggestive location di una Castel Volturno luogo astratto per eccellenza. E già in tali aspetti sussiste una traccia precisa di cosa ambisca ad essere Dogman, opera presentata in Concorso al Festival di Cannes 2018. Nel raccontare la vicenda di contrastata amicizia tra Marcello, toilettatore canino, e Simone, ex pugile violento e dedito al crimine, Matteo Garrone ancora una volta dimostra di conoscere il cinema e le sue regole non scritte, imbastendo un viaggio emozionale tra generi differenti inseriti con la massima spontaneità in un concetto di puro iperrealismo. Come accaduto per L’imbalsamatore (2002), apertamente ricordato negli scenari, anche Dogman viene, passo dopo passo, contaminato dal melodramma – la tenerezza del rapporto tra Marcello e la sua bambina Alida; ma anche il desiderio “feroce” di Marcello di essere accettato, lui piccolo di statura e sgraziato nei modi, dalla comunità che lo circonda, Simone in primis – risucchiato nel noir più cupo (gli episodi criminosi che punteggiano il film prima dell’epilogo) ed infine deflagra nell’orrore metafisico più totale e definitivo, quello dal quale è impossibile tornare indietro.
Matteo Garrone ha dunque realizzato con Dogman un film implacabile, che dapprima ti abbraccia in modo suadente – vedere a titolo esemplificativo la meravigliosa sequenza nella quale i due protagonisti “amoreggiano” sulla pista da ballo per interposta ragazza nel locale notturno – e poi ti stringe sempre più fino a farti mancare il respiro. Ci è riuscito tratteggiando in modo mirabile l’ambiente di un’umanità marginale per il quale l’autore ha sempre provato un’irresistibile attrazione di matrice pasoliniana unita all’autenticità di personaggi in assoluto più veri del reale. Si prova compassione per Marcello (eccellente il poco conosciuto Marcello Fonte, che pare quasi impersonare se stesso a partire dal mantenimento del nome di battesimo), per l’affetto sincero che prova per la figlia e per l’amore totalizzante nei confronti degli animali, i cani, che rappresentano al contempo uno degli scopi della sua esistenza e una fonte di relativo guadagno. Mentre Simone (lodi smisurate a Edoardo Pesce, attore versatile capace di passare con disinvoltura da ruoli leggeri ad altri di maggior spessore) incontra il disprezzo riservato a colui abituato a far prevalere con la forza le proprie istanze negative. Fino ad una conclusione che segna, sottolineata dalla splendida inquadratura finale, l’inevitabile ribaltamento di ruoli nonché un’ambivalenza di significato da rimanere scolpita nella memoria cinefila, sospesa tra abbandono definitivo dell’innocenza e disperato, perciò impossibile, tentativo di tornare ad essa.
Al pari di Reality (2012) e persino ne Il racconto dei racconti (2015) l’ultima illusione di poter vivere in un mondo diverso – che trova riscontro visivo in Dogman nell’ambiente acquatico delle immersioni di Marcello con la figlioletta – si scontra con l’acredine di una realtà priva di speranza, dove i destini appaiono pressoché segnati dall’inizio. Ed è proprio questo senso di ineluttabilità, per l’appunto trasfigurata mediante gli infiniti specchi di una finzione che comunque riconduce sempre ad una dimensione verosimile, a far avere al cinema di Garrone un impatto quasi filosofico per l’insondabile profondità dentro cui scava nel materiale narrativo. Nemmeno da Gomorra (2008), in senso fisico o metaforico, era possibile trovare una via d’uscita. Ed il pessimismo intriso di verità, inteso come sguardo principale sull’esistenza, altro non è che la prerogativa dei grandi autori. Quei pochi che possiedono il coraggio di guardare il mondo per comprenderlo meglio, senza paura che l’abisso in esso contenuto possa scrutare dentro di loro a propria volta.
Daniele De Angelis