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Doctor Sleep

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VOTO: 7.5

Combattere i propri demoni

La vulgata (fanta)scientifica nell’ambito della finzione insegna che far venire a contatto materia e anti-materia può provocare una reazione incontrollabile ed, in genere, foriera di pericoli. Tale simbolico esempio potrebbe solo vagamente rendere l’idea del rischio a cui si è esposto Mike Flanagan – regista ormai ben conosciuto nel contesto del cinema di genere – trasponendo sullo schermo “Doctor Sleep”, romanzo datato 2013 di Stephen King ma soprattutto sequel atipico di quel Shining (film, ma anche libro, ovviamente) entrato sin dal 1980 nell’immaginario collettivo di ogni spettatore cinematografico grazie alla riduzione operata dall’immenso Stanley Kubrick. Esercizio assolutamente pleonastico, dunque, mettere a confronto i due lungometraggi. Da un lato l’orrore sottile, mentale, psicologico e insinuante del Maestro; dall’altro il cinema di un autore – perché di questo si tratta quando si parla di Flanagan, è ormai assodato – desideroso di dare concretezza visiva alle paure che mette, di volta in volta e opera dopo opera, in scena.
Sembrerà strano, a questo punto, premettere subito una realtà inconfutabile: Doctor Sleep funziona perché è un’opera di Mike Flanagan a tutti gli effetti. Romanzo di formazione denso di un dolore che fa sempre rima con orrore, lotta sanguinosa verso il proprio destino contro demoni interiori ed esteriori, in vista di una possibile catarsi finale. E infatti in Doctor Sleep il baricentro narrativo non è Danny Torrance (bravo Ewan McGregor, in un’interpretazione quantomai sofferta) – come ben sappiamo figlio ormai adulto di quel Jack Torrance armato di accetta e preda dei fantasmi dell’Overlook Hotel – bensì l’adolescente Abra Stone (assai spigliata la rivelazione Kyliegh Curran), giovanissima figlia di coppia mista (particolare importante che fornisce anche un senso politico al film) in possesso di una “luccicanza” mai vista prima d’ora. Un potere imperscrutabile, quello della mente, osservato dal Flanagan sceneggiatore almeno inizialmente, alla stregua di una perniciosa malattia, ricordando da vicino il memorabile La zona morta, testo kinghiano ma soprattutto versione cinematografica firmata da David Cronenberg. Questo fino al momento in cui Abra e Danny vengono a diretto contatto, comprendendo infine, dopo un’esistenza trascorsa a “nascondere” il proprio potere da parte del secondo, che parole come unità e solidarietà rappresentino la decisiva chiave per combattere. Nel caso di Doctor Sleep – e qui ci addentriamo sul versante meno nobile del film, da puro cinema di serie B arricchito da imprevedibili momenti splatter per il quale Stephen King ha sempre avuto una malcelata attrazione – una fantomatica setta capitanata da una bellissima ragazza con buffo cappello (Rebecca Ferguson, il più sensuale villain passato da tempo sullo schermo) in odor di vampirismo che caccia e uccide ragazzi in possesso del potere di Abra e Danny, succhiandone e nutrendosi della loro energia vitale. Demone scaccia demone, così tutto si risolverà con un decisivo ritorno all’Overlook Hotel, luogo in cui le due piste narrative – la vita tormentata di Danny e la caccia aperta da parte della setta – convergeranno coerentemente.
Ed è proprio in tale frangente che Flanagan stesso si libera del “fantasma” kubrickiano piegandolo metaforicamente alla propria poetica. Entrando in quel luogo ben radicato nella memoria cinefila in punta di piedi, al pari di un edificio religioso, ma plasmando le creature che lo abitano alle necessità di un film che gli appartiene in toto. Shining resta Shining, edificato da quasi quarant’anni in un irraggiungibile Olimpo cinematografico. Doctor Sleep rimane invece un intrattenimento di gran classe dall’apparato visivo abbagliante, con svariate letture tra le righe e un significato morale ben presente: la solitudine uccide mentre il conforto di una vicinanza può salvare la vita.
Bravo Flanagan, hai vinto una sfida teoricamente quasi impossibile.

Daniele De Angelis

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