Dentro una gabbia d’orata
A giudicare dai nomi ai quali ha deciso di dedicare dei ritratti cinematografici, Asif Kapadia non ha mai amato le figure troppo banali, le cui esistenze sono scivolate nell’anonimato senza lasciare tracce del loro passaggio. La sua attenzione e di conseguenza la macchina da presa si sono andate a soffermare da qualche anno a questa parte su personaggi complessi, tormentati e per certi versi schiavi delle proprie paure interiori e delle rispettive fragilità, le cui vite, per un motivo o per un altro, hanno lasciato un segno indelebile nell’immaginario collettivo sino a raggiungere lo status di Mito. Prima Ayrton Senna, poi Amy Winehouse e ora l’ultimo in ordine di tempo a trovare posto nella personale galleria allestita dal regista inglese di origine indiana è stato niente di meno che El Pibe de Oro, Diego Armando Maradona.
Per raccontare la straordinaria ma anche dolorosa parabola dentro e fuori dal rettangolo di gioco di quello che quasi all’unanimità (Pelè permettendo) è considerato uno se non il più geniale, amato e controverso campione di tutti i tempi, il cineasta londinese ha seguito nuovamente alla lettera il suo modus operandi, in particolare replicando fedelmente quello con il quale ha dato forma e sostanza a Senna. Modus operandi che consiste nell’attingere generosamente ai materiali di repertorio a sua completa disposizione e attraverso di essi comporre, tassello dopo tassello, un vero e proprio mosaico audiovisivo dove non c’è spazio per le classiche interviste frontali con le quali si realizzano i cosiddetti talking heads. In tal senso, vengono meno i corpi degli intervistati (giornalisti, allenatori, compagni di squadra, personal trainer e famigliari), dei quali Kapadia conserva e utilizza solo le testimonianze orali come fosse un coro greco chiamato a confutare, smentire o commentare quanto raccontato di volta in volta dallo stesso Maradona. È inevitabile che sia lui a tenere saldamente a sé le redini del discorso, raccontando e raccontandosi senza veli e senza filtri, evitando la facile agiografia per restituire allo spettatore una vera e propria confessione che il regista premio Oscar ha da prima raccolto e poi restituito in maniera onesta e obiettiva. Da questo punto di vista, così come era accaduto nel testa a testa tra Emir Kusturica e Maradona, anche Kapadia non si lascia intimorire dal peso specifico di un personaggio tanto amato e idolatrato, mostrando le due facce della stessa medaglia dell’uomo e del calciatore, ossia il Diavolo e l’acqua santa, il genio e la sregolatezza.
Nel documentario, distribuito da Nexo Digital (dal 23 al 25 settembre) dopo le apparizioni festivaliere alle ultime edizioni di Cannes e del Biografilm Festival, il regista ne traccia l’identikit non tralasciando nessuno degli episodi più scomodi e negativi della sua esistenza (così come aveva fatto in Amy), a cominciare dall’uso di cocaina alla paternità negata, passando per le risse fuori e dentro il campo, le scorrettezze (vedi il famoso colpo di mano in Argentina – Inghilterra) e la sudditanza nei confronti della malavita organizzata campana.
Il risultato è un film di montaggio dal ritmo incalzante costruito con precisione e cura maniacale attraverso immagini tratte dall’archivio personale di Maradona, composto da oltre 500 ore di filmati mai visti prima. Ed è da quel tesoro inestimabile di calcio giocato e home movies che Kapadia forgia i 130’ di una timeline non lineare che palleggia nei decenni. Ovviamente gran parte del racconto non si poteva che concentrare sulla lunga e gloriosa esperienza a Napoli, croce e delizia della sua carriera, con qualche parentesi calcistica ed extra-calcistica tra gli esordi, il Barcellona e l’amata Nazionale Argentina che l’ha visto campione del mondo a Messico ‘86. Il Capoluogo campano e lo Stadio San Paolo diventano il paradiso e l’inferno in Terra per una sorta di semidio calcistico che per sua fortuna e suo malgrado si è ritrovato in una “gabbia d’orata” dove ha disputato sette stagioni indimenticabili (dal 1984 al 1991, collezionando tra campionati e competizioni varie un totale di 259 presenze mettendo a segno la bellezza di 115 reti e vincendo 2 scudetti, una coppa Italia, una Supercoppa italiana e una Coppa Uefa), con il presidente Ferlaino nelle vesti di carceriere.
Francesco Del Grosso