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Decision to Leave

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VOTO: 7

Se Confucio non va alla montagna

In concorso all’ultimo Festival di Cannes un altro nome che ha lasciato un’impronta sulla Croisette, il sudcoreano Park Chan-wook con Decision to Leave, vincitore del Premio alla Regia. Con Old Boy il cineasta non solo aveva vinto il premio equivalente nell’edizione di Cannes 2004, ma aveva lanciato e fatto scoprire in tutto il mondo la straordinaria vitalità del cinema sudcoreano. Non c’è dubbio che quella trilogia della vendetta, composta, oltre che da Old Boy, da Mr. Vendetta e Lady Vendetta, abbia rappresentato per lui una cima inarrivabile. Decision to Leave, pur non raggiungendo quelle vette, conferma l’amore di Park Chan-wook per i film molto scritti, dalla complessa sceneggiatura, dalle trame fatte di punti che si collegano, enigmi che si svelano, come del resto evidente nel suo approccio al genere storico-letterario di Mademoiselle (titolo italiano per The Handmaiden) pure presentato sulla Croisette. Qui questa complessità narrativa trova il suo compimento in un film noir. Decision to Leave parte dalla morte di uno scalatore, vittima di quello che sembra un classico incidente, una caduta accidentale mentre stava arrampicandosi sulla ripida cima di un impervio monte. La dinamica appare però sospetta e i dubbi dell’investigatore Hae-joon si riversano sulla moglie della vittima, Seo-rae, di origine cinese. Tra l’indagatore e l’indagata nascerà una specie di relazione sentimentale.

La montagna è il motore narrativo della vicenda e sarà più volte mostrata nel film. Una montagna strana, irreale, assurda. Da un lato si tratta semplicemente del risultato di un’immagine generata in CGI, visto che sarebbe stato troppo difficile e costoso girare in esterni in alta quota. Ma la montagna si ammanta di un significato chiave nel film anche per i riferimenti alla filosofia cinese e a Confucio. Park Chan-wook costruisce il film su antinomie cardine delle filosofie orientali, evocate anche da un tempio buddhista. Il conflitto e il rapporto ambiguo tra Hae-joon e Seo-re, l’investigatore non privo di macchie e la dark lady cinese che si fa scudo con il suo apparente pessimo coreano, trova corrispondente figurativo nel contrasto tra monte e mare, tra verticale e orizzontale, alto e basso. Dalla montagna dell’inizio si arriva al mare della fine del film nella spiaggia ripresa dall’alto che, con le onde, crea un disegno di linee parallele. C’è la vertigine hitchcockiana dell’inseguimento sui tetti (l’incipit di La donna che visse due volte). C’è la dualità di Yin e Yang, di femminile e maschile, notte e giorno, tenebre e luce come i due lati della montagna, quella in ombra e quella soleggiata.

Seo-re premette da subito di non riuscire a parlare bene il coreano e lo ripeterà più volte. Ma sembra contraddirsi subito parlando fluentemente nella lingua del paese in cui vive, e lo stesso Hae-joon le rinfaccia di esprimendosi in realtà meglio di lui. Ancora quello che può essere interpretato come un semplice stratagemma, per eludere interrogatori e indagini, diventa simbolo delle parabole narrative dei due personaggi, che da parallele arrivano a congiungersi. Della tensione tra la necessità, della narrativa di genere, di finire con una spiegazione dell’enigma che non lasci ombre, e le ombre dell’ignoto che rimangono nella vita, nella realtà dove non tutto può essere spiegato. E l’indagata sfida l’indagatore prefiggendosi l’obiettivo di andare a finire nel suo archivio di fallimenti, nell’elenco dei suoi cold case, i delitti non risolti. Voglio essere un tuo cold case: una paradossale dichiarazione d’amore in un contesto come quello del cinema di Park Chan-wook dove si può scivolare in un attimo tra l’idillio e l’abominio, tra l’amore e l’incesto come succede in Old Boy. Una caduta repentina e rovinosa come quella dello scalatore che perde l’appiglio sulle ripide pareti di un’alta montagna.

Giampiero Raganelli

 

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