Sui suoi passi
Chiunque si occupi di regia ha dei modelli di riferimento viventi e non ai quali rivolgere lo sguardo consciamente o inconsciamente ogni volta che decide di sedersi dietro una macchina da presa. Riferimenti, questi, da assorbire ma non da replicare fedelmente che possono influenzare o guidare scelte drammaturgiche o estetiche. Per il madrileno Pablo Maqueda la figura di Werner Herzog, il suo approccio alla materia di turno, il corpus di opere sin qui prodotte e le tematiche chiave che lo alimentano, a cominciare dal rapporto tra uomo e natura, sono dei veri e propri punti fermi dai quali il suo cinema non vuole e non può prescindere. Motivo per cui il regista spagnolo ha deciso di realizzare un documentario dal titolo Dear Werner (Walking on Cinema), presentato in concorso alla 69esima edizione del Trento Film Festival.
Un titolo che più che a una biografia classica fa pensare a un scambio epistolare, che suona come una vera e propria lettera d’amore e stima che Maqueda ha voluto inviare al cineasta tedesco. Una lettera personale e intima scritta sullo schermo con una videocamera e non con carta e penna, che si traduce in un diario di viaggio attraverso il quale il mittente vuole ringraziare a suo modo l’illustre collega. Mettendo da parte il retelling o la raccolta di testimonianze che normalmente servono a dare forma e sostanza al biopic nella sua veste tradizionale, l’autore decide di firmare un’opera che per caratteristiche genetica si avvicina molto di più a un saggio audiovisivo. Camera alla mano e in solitaria, senza l’utilizzo di una troupe, Maqueda decide di seguire le orme del maestro e lo fa nel senso letterale del termine. Tracciato un percorso sulla mappa, il cineasta spagnolo torna sui passi del collega tedesco, camminando e filmando per 775 km, quelli che separano Monaco da Parigi. Su quella stessa tratta, nel 1974, Werner Herzog si avventurò in un atto di fede per evitare la morte della sua mentore Lotte Eisner. Ieri come ora, si tramuta in un viaggio attraverso paesi, natura, solitudine e freddo, alla ricerca del senso del fare cinema.
Dear Werner (Walking on Cinema) racchiude dunque al suo interno più anime, quella biografica e quella artistica, che mescolate producono un oggetto documentaristico non meglio identificato, nel quale forma e contenuto si fondono per diventare una cosa sola. Il film include frammenti del libro “Sentieri nel ghiaccio”, letti in esclusiva del leggendario regista tedesco, che accompagnano le tappe di questo diario di bordo fatto di luoghi, incontri, passi, giorni e notti, montagne, boschi, strade e sentieri sterrati. E la mente torna proprio a Nomad: in the Footsteps of Bruce Chatwin, una delle ultime fatiche documentaristiche di Herzog, che lo ha visto tornare sulle tracce del compianto amico e scrittore britannico. Non è la prima volta che lo fa, lui che nella sua carriera ha camminato con la sua videocamera in tutti i continenti, attraversando a piedi boschi d’inverno, eruzioni vulcaniche, grotte preistoriche, il braccio della morte e laghi gelati. Lui che ha camminato con leader politici, pinguini australi, serial killer, orsi bruni e campioni di salto con gli sci. Lui che ha camminato tra iguane, ragni, scimmie, formiche e caimani. Lui che ha camminato di pari passo con vampiri della Transilvania, conquistatori degli Incas, artisti del vetro e figure capaci di governare una nave su per la montagna. E quale modo migliore per rendergli omaggio se non quello di camminare come lui al freddo tra Germania e Francia.
Una prova estrema in perfetta sintonia con il modello preso in esame, con il quale cercare di instaurare un congiungimento spazio-temporale, mentale e creativo. La camera diventa così un’estensione oculare in soggettiva che genera sovrapposizioni tra ciò che era e ciò che è diventato. Osservare le stesse cose nel presente con gli occhi del passato. Sta in questo incontro di immagini e pensieri il fascino e la bellezza di Dear Werner (Walking on Cinema), qualità indiscutibili di un’opera che si avvale di immagini e musiche fortemente evocative e suggestive. Il risultato però è un po’ troppo ostico nella durata, con gli 80 minuti che dilatano eccessivamente quello che poteva essere chiaro ed efficace anche sintetizzato.
Francesco Del Grosso