Grosse palle di fuoco
Se qualcuno ritiene, non a torto, che la Marvel rischi la bulimia produttiva inflazionando il mercato dei cine-comics, non ha fatto i conti con Deadpool. Perché il supereroe interpretato da Ryan Reynolds – in occasione del sequel coinvolto anche in fase di sceneggiatura, oltre che a livello produttivo – appartiene concettualmente più alla stirpe degli uomini in costume alla Kick-Ass (2010) o Super – Attento crimine! (2010), piuttosto che agli altri “superman” della casa madre dotati di mirabolanti superpoteri. In tale chiave anche il sequel non si smentisce: il lungometraggio diretto da David Leitch – subentrato dietro la macchina da presa al più “fanzinaro” e appassionato Tim Miller – è un altro campionario di politically uncorrect, atto a mettere in mostra più il lato umano che quello superomistico (l’autorigenerazione del corpo, ad esempio) del personaggio Wade/Deadpool. Il quale ritroviamo, nel lungo prologo, a combattere con sprezzo del pericolo le varie mafie sparse ad ogni latitudine del globo. Guai sono perciò previsti e guai arriveranno presto, colpendo la creatura mortale di cui Wade è perdutamente innamorato. Dando lo spunto, tra le altre, numerose, commistioni di genere, anche alla parentesi melodrammatica che si affaccia con sistematica puntualità nel corso di questo secondo capitolo.
Rispetto all’opera primigenia, Deadpool 2 perde inevitabilmente l’effetto sorpresa del capillare lavoro metacinematografico sul personaggio principale. Se il primo Deadpool stupiva – e conquistava – soprattutto per la carica tellurica del personaggio fumettistico creato da Fabian Nicieza per la parte testuale e Rob Liefeld per i disegni, autentico catalizzatore di umorismo sboccato, iper-citazionismo a tutto tondo nonché una buona dose di sfiga (il tumore che lo colpisce, tra le altre cose), lo stesso discorso non si può affermare per il seguito, in cui tutto ciò s’impone come background già ben consolidato. Di conseguenza anche l’empatia del pubblico nei confronti del protagonista cala di un gradino, avviando anche il canovaccio narrativo su binari abbastanza prevedibili. I fans resteranno comunque soddisfatti poiché viene dato loro l’atteso intrattenimento senza pause, peraltro arricchito da uno script che possiede il proprio punto di forza nella pressoché totale intercambiabilità tra buoni e cattivi, con lo stesso Deadpool a pencolare di continuo tra l’accezione di eroe positivo e (in parte) negativo. Così tra adolescenti sovrappeso che “sparano” enormi vampate di fuoco e vari eroi ritornanti dal capitolo precedente, Deadpool 2 prosegue imperterrito nella sua opera di demolizione dell’intangibilità del Mito supereroistico, già messa a dura prova nel recente Avengers: Infinity War. Da parte sua la mano non raffinatissima di David Leitch – coregista del primo John Wick assieme a Chad Stahelski, nonché director in proprio di Atomica bionda (2017) – mantiene il film su un piano di decorosa spettacolarità, non annoiando ma nemmeno sottolineando troppo una qualche lettura tra le righe che sarebbe potuta emergere con maggiore vigore, tipo la rappresentazione delle due giovanissime mutanti omosessuali.
Se lo spirito davvero trasgressivo, nella trasposizione tra fumetto e film, è destinato a rimanere fatalmente sulla carta, nondimeno Deadpool 2 garantisce azione e bizzarria a sufficienza da non finire nel dimenticatoio. Anche se il meglio, come del resto accaduto nel primo film con la micidiale citazione/imitazione del post scriptum di Una pazza giornata di vacanza (1986) di John Hughes, si annida ancora una volta tra i titoli di coda. Come al solito spiritosissimi e da non perdere nella maniera più assoluta. Restate comodi in poltrona, in compagnia di Deadpool, fino all’accensione delle luci in sala!
Daniele De Angelis