Piccola aliena di Calabria
Un’esordiente dal cognome noto – per meriti “familiari” – vola direttamente con il suo primo lungometraggio al Festival di Cannes 2011, inserita nella prestigiosa sezione Quinzaine des realisateurs tra l’altro come unica pellicola italiana ammessa. Poteva essercene abbastanza per partire un filino prevenuti, pronti all’alzata di sopracciglio di fronte ad un cinema tricolore sempre più chiuso in una autoreferenzialità in apparenza senza via d’uscita.
Per fortuna, nel caso specifico di Corpo celeste di Alice Rohrwacher, andiamo decisamente in tutt’altra direzione. La sorella minore dell’attrice Alba (che non compare nel film), un pedigree da documentarista e nessuna esperienza di fiction, è infatti riuscita a girare un’opera completamente atipica nel panorama italiano, soprattutto perché priva di vezzi o smancerie tese a catturare le simpatie del pubblico, ma al contrario piena di sincero coraggio nel voler rappresentare un certo tipo di realtà che ancora affligge il sud della nostra penisola. Corpo celeste – il rimando al titolo del romanzo omonimo di Anna Maria Ortese è solo simbolico – è raccontato dal punto di vista della tredicenne Marta, cresciuta in Svizzera ma da poco rientrata con la famiglia a Reggio Calabria. E la Rohrwacher dimostra sin da subito di avere idee chiarissime sulla messa in scena, adottando uno stile straordinariamente realistico che riesce immediatamente a sovrapporre il proprio sguardo autoriale con quello della giovanissima protagonista. Quasi si trattasse di uno spontaneo movimento osmotico, fuoriesce dallo schermo la medesima sensazione di soffocamento percepita da Marta, piccola estranea catapultata d’un tratto in un altro mondo che non può riconoscere e di cui le sfuggono le coordinate esistenziali. Non resta, come sorta di scelta obbligata, che la chiusura in se stessi, anche a detrimento dei rapporti famigliari, in particolar modo con la sorella maggiore diciottenne dalla quale troppe cose sembrano dividerla. Coadiuvata da un cast encomiabile in toto, capeggiato dalla piccola ed eccezionalmente espressiva Yle Vianello ma dove offrono il meglio anche consumati professionisti come Anita Caprioli (nel ruolo della madre di Marta) o Renato Carpentieri, in un breve ma incisivo cameo, la Rohrwacher ci introduce in un ambiente profondamente degradato attraverso un’illustrazione “neutra” di fatti e personaggi, mostrati senza alcun alone di giudizio aprioristico. Ed è proprio questo il maggior pregio cinematografico di Corpo Celeste: utilizzare cioè una forma semi-documentaristica troppo spesso di recente abusata nella sua inerte semplicità con un preciso scopo, quello di togliere il metaforico velo su problematiche tuttora esistenti nel meridione e non solo. Mediante l’osservazione pura e diretta di un’adolescente indirizzata verso l’età adulta, assistiamo ad una supremazia religiosa in ambito sociale protesa soltanto ad inculcare pseudo-valori che a tutto corrispondono tranne alla vera dottrina cristiana, nonché alla ineluttabile contiguità tra chiesa e politica locale, in nome di un affarismo clientelare che cerca di garantire quel poco necessario alla sopravvivenza per tutti solo a vantaggio del proprio tornaconto. Eccellenti, in questo senso, le descrizioni dei personaggi di don Mario – prete in carriera privo di soprassalti morali – e della sua “perpetua” Santa (nomen omen), esempio di adesione ingenua, totale e contraddittoria a Dio, invocando la piena “sintonizzazione con Lui” secondo modelli bassamente di tendenza nella canzone insegnata durante le lezioni di catechismo ai ragazzi in vista della Cresima. Nessuno di loro viene additato come colpevole dalla Rohrwacher; essi alla fine risultano solo rotelle secondarie di un meccanismo enormemente più grande di loro, al pari di una città come Reggio Calabria cresciuta a dismisura in modo disordinato e non regolamentato, della quale le cineprese digitali della regista offrono assai significativi squarci. A testimonianza ulteriore di un cinema in stato di grazia in grado di intercambiare in modo continuativo lo sfondo della storia e gli stati d’animo della propria protagonista.
Nella progressione narrativa di Corpo celeste non manca qualche piccola scivolata nel simbolismo troppo esplicito e perciò immediatamente decifrabile (ad esempio la figura della sorellina minore di Marta, vittima inconsapevole del degrado televisivo contemporaneo…) ma si tratta di peccati veniali ampiamente riscattati in special modo da un’ultima parte che rappresenta – sempre tra le righe di un discorso ammirevole per minimalistica coerenza – quasi un percorso a tappe obbligate nella inevitabile crescita di Marta. La quale, nell’indimenticabile giorno della Cresima, conoscerà l’amara impotenza del non riuscire ad opporsi alla stupida crudeltà umana, carezzerà il volto sofferente di un Cristo crocefisso molto lontano dalla visione “moderna” inculcatale e vivrà l’esperienza delle prime perdite mestruali. Prendendo infine atto che l’inaspettato – anche “meraviglioso” – sarà sempre dietro l’angolo di una vita come la sua, piccola stella destinata comunque a brillare nonostante l’oscurità che la circonda.
Daniele De Angelis