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Conferenza stampa “Sangue del mio sangue”

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Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio sta affrontando il suo terzo weekend in sala, attualmente è in decima posizione al box office.
In occasione della presentazione alla 72esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, abbiamo avuto la possibilità di incontrare gran parte del cast del film e il regista, Marco Bellocchio, per approfondire una pellicola che ha molto sorpreso nel suo voler essere “fuori dagli schemi”.

Ci può illustrare il suo personaggio, anzi, i suoi vari ruoli?
Piergiorgio Bellocchio: È un personaggio che attraversa diverse epoche. Nella prima parte del film si trasforma, inizialmente è un soldato di ventura costretto a tornare al suo paese, dalla sua famiglia, per risolvere un grave problema legato alla morte del fratello sacerdote; nel percorso che compirà per portare avanti l’indagine sulle cause di questa morte, finirà per diventare lui stesso sacerdote. Il tutto attraverso lo scontro e il confronto, ma anche la passione, il trasporto per la suora Benedetta (Lidiya Liberman), capace di mettere in crisi l’intera famiglia. Poi si sveglia una mattina e ci ritroviamo ai nostri giorni, nella nostra società contemporanea, che però ha la stessa irrequietezza, insoddisfazione, angoscia, il medesimo conflitto che brucia dentro. In più ci sono gli stessi luoghi e facce, andando a creare, in quest’altro tempo, un confronto generazionale.
Questo personaggio mi ha dato la possibilità di fare un percorso dentro di me, ma anche fuori rispetto alla mia immagine.

Herlitzka, il suo personaggio vampirizza, ma è anche vampirizzato da altri tempi, cosa può dirci a riguardo?
Roberto Herlitzka: Io direi che più che vampirizzato, viene completamente estromesso dalla morale e addirittura dai suoi complici, subisce una specie di piccola congiura di corte. Lui è un perdente, ma essendo un vampiro non finisce perché i vampiri non finiscono mai.

Qual è il fascino del vampiro?
Roberto Herlitzka: Quello che è molto affascinante è il dubbio perché questo signore non si presenta in modo riconoscibile in quanto vampiro (intendendo sul piano dell’immaginario cinematografico). Il dubbio viene insinuato dalle condizioni e dalla sua volontà di credersi un vampiro.
Marco Bellocchio: Abbiamo voluto evitare le raffigurazioni tradizionali del vampiro come l’incenerimento, c’è un leggero raggio di sole all’alba. A me interessava un uomo che ha un’aurea di vampiro, che vive anche in un modo un po’ teatrale.

Alba Rohrwacher, cosa l’ha colpita del suo personaggio?
A. Rohrwacher: Mi è piaciuto che fosse una sceneggiatura molto personale – si sente che è di Marco -, è libera, non convenzionale e perciò mi sono sentita fortunata nell’esser stata scelta per Maria Perletti. Già dalla scrittura, pensando all’innocenza e all’ingenuità con cui gestiscono la passione che all’improvviso le anima ho sorriso teneramente.

Federica Fracassi, lei nell’intervento contenuto nel pressbook dice di Bellocchio: «Con Marco si vince ragionando a rovescio. […] Smonta con un salto che tutto tiene. Che tiene per primi noi attori, il bello di noi. Lo storto, l’unico di noi, che lui ha la grazia spietata di saper vedere e poi cita una frase di Cristina Campo: “Vince nella fiaba il folle che ragiona a rovescio… Crede costui, come il santo, al camminosulle acque, alle mura attraversate da uno spirito ardente”». Potrebbe parlarci di Marta Perletti e approfondire queste sue parole?
F. Fracassi: Per quanto riguarda il ruolo mi associo a ciò che ha detto Alba, questa sensazione di respirare insieme. È un personaggio molto delicato, che è il risultato anche dello scoprire, giorno per giorno sul set, le parole da dire, gli sguardi, le reazioni rispetto all’uomo interpretato da Piergiorgio.
Io sono alla terza esperienza con Marco, ho sempre lavorato in piccoli ruoli, ma molto significanti e quello che mi piace è proprio questo ragionare e ritornare su se stessi, ci è sembrato anche con Alba che appena si era compreso qualcosa, Marco la ribaltava in tal senso parlavo del “ragionare a rovescio”.

Lidiya, lei ha un ruolo molto complesso, può raccontarci il suo approccio?
Lidiya Liberman: Tutto è iniziato sei anni fa quando abbiamo realizzato il cortometraggio durante il laboratorio a Bobbio. Quando si è passati al progetto del lungometraggio, letta la sceneggiatura, ho compreso che non si trattava meramente della monaca di Monza, ma ho scoperto la sua vicinanza ai nostri giorni. Lei è una donna che ha una forza nell’animo e una libertà interiore tali da sentire di avere diritto a vivere.

Bellocchio, può dirci qualcosa sulla figura un po’ “folle” interpretata da Filippo Timi?
M. Bellocchio: Torna il discorso dell’ispettore generale. Noi anche nel caso di Timi abbiamo molto asciugato, all’inizio erano tre gli interventi, nella scena del bar – molto importante – lui ha scatenato se stesso offrendo questa rappresentazione della pazzia.

Bellocchio, ha mai pensato di raccontare il film, montando in modo diverso questi due archi temporali che attualmente hanno una divisione molto netta?
M. Bellocchio: Non ho mai pensato di creare una struttura frammentata. Questa forma non perfetta è stata conquistata con varie esperienze, l’ultima modifica ha riguardato il finale (di cui, noi, però, non vogliamo svelarvi), ma non ho mai pensato di creare una struttura più frammentata proprio perché l’episodio del conte ha  una sua autonomia. Detto ciò, la stranezza, il carattere e il senso di questo film risiedono proprio nella forma imperfetta, in cui non c’è il rigore all’americana, dove non si va a caccia di coincidenze che sembra sia obbligatorio trovare in ogni pellicola.

Perché ancora una volta Bobbio come teatro e protagonista di un suo film e quanto c’è di vero dell’atmosfera che Bobbio ispira?
M. Bellocchio: Non sono fissato con Bobbio, io credo che ormai non ci sia più paese, io sono nato e cresciuto in un’epoca in cui la dimensione paesana era qualcosa di ben preciso e lo stesso valeva per l’isolamento paesano rispetto alla città di provincia e alla metropoli. Adesso tutto è disgregato per via della globalizzazione. Bobbio torna perché tutto nasce da questi corsi che facciamo ormai da vent’anni in cui, a ogni edizione, bisognava cercare un luogo e, in fondo, il cinema è anche lo spazio in cui girare. Scoprimmo, quindi, queste prigioni abbandonate e da questo set ci venne in mente di realizzare il primo episodio della donna murata ispirandomi alla monaca di Monza, che divenne quasi una santa, noi abbiamo ribaltato l’evoluzione che ebbe la monaca di Monza. La storia va presa per com’è, l’ordalia dell’acqua è qualcosa di astorico perché fu proibita dalla stessa chiesa nel Medioevo, ci piaceva quest’immagine perciò l’abbiamo inserita, lo stesso vale per la prova delle lacrime o del ferro rovente. Ci sono alcuni elementi che in parte sono inventati, ma noi non abbiamo cercato di ricostruire filologicamente un’epoca storica.

A che momento del suo percorso di cinema corrisponde questa ricerca della libertà che sottolineava lei stesso?
M. Bellocchio: Il film ha una sua forma, scandita in tempi senza gratuità, accelerazioni o fantasticherie. Più in generale io cerco sempre di divertirmi con ciò che faccio, di rispondere al piacere di ciò che realizzo.

La donna torna ad essere al centro della sua narrazione. Ci può parlare del fatto che torna come nodo la natura femminile e il nodo con cui si cerca di incatenarla…
M. Bellocchio: Io ovviamente parlo della mia esperienza, sono io che carattere, vitalità, forza tendo ad attribuirli più alla donna che non agli uomini, è la mia vita.

Forse anche la religione resta un altro punto cardine su cui continuare a fare ricerca…
M. Bellocchio: Io sono un anarchico però sempre più moderato, certamente il potere mi dà fastidio. Parlar male della Chiesa non mi viene naturale, anche quando realizzai L’ora di religione non era la Chiesa in generale, ma una famiglia che cercava di riconquistare un potere perduto mediante la beatificazione di un loro parente.

Potete dirci qualcosa in merito alla scelta di farne anche un film famigliare (con fratelli e figli). È stata una necessità?
M. Bellocchio: Una necessità, ma anche qualcosa di naturale. Con tutto il rispetto per le mogli, sono i figli con cui bisogna fare i conti, è proprio il sangue del tuo sangue ed effettivamente questo essere vissuti insieme per tanto tempo, negli stessi luoghi, i pranzi, le cene, le attese, le delusioni creano tutto questo.
Parlando più direttamente di questo film, è come se una certa tragedia avvenuta nella mia vita e raccontata in un modo diretto in Gli occhi, la bocca qui avesse un racconto molto più indiretto che, però, è come se paradossalmente approfondisse maggiormente ciò che era accaduto nella mia vita e che avevo raccontato quasi in presa diretta nell’ ’82.

Dopo diversi film realizzati insieme, Piergiorgio Bellocchio arriva a un ruolo da superprotagonista. Può parlarci del vostro rapporto?
P. Bellocchio: Si tratta di un rapporto padre-figlio, certo il nostro luogo è il set,  qui abbiamo anche trovato una dimensione di intesa, col tempo abbiamo raggiunto un affiatamento e credo che sia accaduto con questo film. Non c’è più quel conflitto profondo che può esserci tra un padre e un figlio, ma adesso siamo a un livello in cui scherziamo, possiamo anche discutere. Poi per la mia vita di uomo e persona che ha una famiglia, stare sul set con lui significa anche poter stare sei settimane fianco a fianco con tuo padre facendo qualcosa di reale che è un privilegio. Le nostre sono due strade autonome che si intrecciano, sovrappongono e parlano.

Maria Lucia Tangorra

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