«Si è voluto entrare in una dismisura sentimentale affettiva»
Lei mi parla ancora è l’ultimo lavoro diretto da Pupi Avati, liberamente tratto dall’omonimo libro di Giuseppe Sgarbi (padre di Vittorio ed Elisabetta Sgarbi, edito da Skira e pubblicato adesso da La Nave di Teseo). Si tratta di un lungometraggio Sky Original, prodotto da Bartlebyfilm e Vision Distribution in collaborazione con Duea Film, disponibile dall’8 febbraio in prima assoluta su Sky Cinema e in streaming su NOW TV – disponibile anche on demand.
Alla conferenza stampa di presentazione, moderata dal professore e critico cinematografico Gianni Canova, hanno partecipato sia Nicola Maccanico (Executive Vice President Programming Sky Italia, CEO Vision Distribution) che il regista Pupi Avati, con gran parte degli attori di qualità: Renato Pozzetto (Nino), Fabrizio Gifuni (Amicangelo), Isabella Ragonese (Caterina da giovane), Chiara Caselli (La Figlia), Lino Musella (Nino da giovane), Nicola Nocella (Giulio), Serena Grandi (Clementina) e Stefania Sandrelli (Caterina). Completano il cast Gioele Dix, Alessandro Haber e Matteo Carlomagno.
D: Dopo le atmosfere gotiche de Il signor Diavolo ritroviamo la sua vena più intimista ed esistenziale: una grande storia d’amore che si protrae nel tempo, ma anche la rappresentazione di come si racconta una storia d’amore (sceneggiata con suo figlio Tommaso).
Pupi Avati: «È una storia esagerata, si è voluto veramente entrare in una dismisura sentimentale affettiva, che mi sembra venga a mancare in un momento della storia del nostro paese e dell’Occidente, in cui ritrovo una sorta di prudenza e di timore di esporsi, di confidarsi, di parlare della propria vita e della morte così come del proprio amore. Il tutto alla luce di quel ‘per sempre’, che mi sembra che sia una locuzione avverbiale che abbiamo soppresso dalla nostra interlocuzione; mentre, invece, era fondamentale nei remoti anni Cinquanta, che io ho vissuto. Quel ‘per sempre’ poteva valere anche per l’amicizia, le cose, gli oggetti. Anche se la ragione ti richiamava al fatto che fosse impossibile che esistesse ‘il sempre’, almeno un attimo ci si voleva credere e si conferiva un gesto, in quel momento della propria vita, a qualcosa che aveva a che vedere con l’immortalità. Questo film si occupa di questi temi, quindi vola molto alto rispetto agli argomenti affrontati, in genere, dalla cinematografia attuale».
D: Nicola Maccanico, dopo Tutti per 1 – 1 per tutti, è il secondo film targato Sky Original con una scelta precisa di farlo uscire direttamente in piattaforma.
Nicola Maccanico: «Ascoltare Pupi fa sorridere per il piacere che si prova e non a caso siamo molto orgogliosi, in quanto Sky, di averlo convinto nell’essere con noi e di poter offrire agli abbonati Sky un’opera di questo valore; anche perché ha ragione Pupi quando afferma che l’espressione ‘per sempre’ non va più di moda, non la si utilizza più rispetto ai rapporti e alle cose, però viene ancora adoperata rispetto all’arte più alta, in cui rientra quella di Avati. Di conseguenza, siamo molto contenti di poter lavorare con un maestro di questo livello e di portare un film di questo tipo, anche perché ritengo che la vera forza del cinema italiano resti più di tutto la capacità di raccontare delle storie. Il nostro cinema si basa sulla caratteristica ipotetica che spesso è stata realizzata nel trovare identificazione e credo che questa storia abbia proprio questa qualità di base, in quanto, nel vedere la meravigliosa opera di Pupi – l’intero cast è stato straordinario – ognuno può trovare una sua chiave di identificazione. In virtù di questo sarebbe stato veramente un peccato congelare un lavoro così nell’attesa della riapertura delle sale. Credo che chi fa il nostro lavoro debba avere una stella polare e cioè mettere in contatto i grandi film con il pubblico, in ogni modo possibile perché non dobbiamo fare in modo che questo filo si spezzi, non dobbiamo creare disabitudine. Come Sky ci stiamo impegnando e quando possiamo farlo con progetti di questo livello è solo un privilegio».
D: Fabrizio Gifuni (coprotagonista), lei dà volto ad Amicangelo, il ghostwriter che aiuta l’anziano protagonista a raccontare la sua storia d’amore…
Fabrizio Gifuni: «Interpreto questo ghostwriter, il quale si reca contro voglia a svolgere questo compito, anche perché avrebbe la legittima ambizione di essere uno scrittore – ha dato vita a un romanzo e spera che aderendo alla richiesta della figlia di Nino, possa avere l’opportunità di pubblicare pure il proprio libro. Ci sono una diffidenza e una distanza iniziali con l’anziano farmacista. Amicangelo incarna l’irruzione del contemporaneo in un mondo novecentesco e questa era una condizione abbastanza simile alla mia condizione di attore: ero con un piede nel presente; con l’altro ho avuto la possibilità di entrare nel mondo di Pupi Avati, il quale riesce a raccontare in maniera unica l’universo di memorie e ricordi. E poi è avvenuto il meraviglioso incontro con Renato Pozzetto, è un attore che ho amato moltissimo, di cui conservo nella mia memoria intere sequenze dei suoi film. In Lei mi parla ancora Nino muta un po’ la mia vita, cambiano le esistenze di entrambi perché lenisce un po’ i loro dolori. Va detto che è tutto molto più semplice quando un attore ha la possibilità di lavorare con un grande maestro qual è Pupi, che ha una padronanza del racconto veramente impressionante, in più con una storia bellissima – quando ho letto la sceneggiatura è la prima cosa che mi ha colpito – e con un cast formidabile, da Stefania Sandrelli e Renato a Isabella e Lino, ma complessivamente tutti quanti».
D: A Isabella Ragonese e Lino Musella chiederei di commentare la condizione ‘psicologica’ in cui si trova un attore che sa di interpretare due personaggi, sapendo che all’interno dello stesso film, c’erano altri due interpreti che davano volto ai medesimi ruoli, in anni diversi…
Isabella Ragonese: «Rina è un personaggio difficile da slegare dal marito perciò con Lino abbiamo lavorato molto insieme. Pupi ci ha lasciato molto liberi, non ha cercato di forzarci verso un’imitazione. Noi raccontiamo il momento della promessa, quindi l’inizio di tutto. L’indicazione che ricordo con chiarezza è consistita in: ‘ci credo, non ci credo’. Una frase molto semplice, ma era difficilissimo e complesso per l’attore credere a questa coppia e a quest’amore e quindi dimenticarsi un po’ di tutto e forse è il miglior il miglior modo per avvicinarci poi a loro da adulti. Stefania è unica, era impossibile ‘esserlo’, l’unica cosa che potevo provare a fare era riportare – anche minimamente – questa potenza ed energia. Stefania è una luce».
Lino Musella: «Lavorare su Nino da giovane, sapendo che a interpretarlo da grande è Pozzetto, è stato estremamente delicato perché sono cresciuto con i suoi film quindi il rischio di essere tentato dall’imitazione era dietro l’angolo. Pupi mi ha indirizzato passo dopo passo, mi ha chiesto di andare un giorno sul set e vedere come Renato lavorasse su Nino e ho cercato di aggrapparmi alla delicatezza e alla dolcezza che suscitava il personaggio, che sentiva per questa mancanza. Chiaramente il lavoro realizzato su questa coppia da giovane deriva dal connubio con Isabella, con cui c’è stata una grande sintonia lavorativa e poi abbiamo un modo molto simile di intendere la nostra professione. Allo stesso tempo, la sua bellezza e la sua luce in parte mi intimidiva e poi, lavorandoci, ho scoperto che questa timidezza serviva al personaggio».
D: Renato cosa ti ha colpito di questo personaggio?
Renato Pozzetto: «Quando Pupi mi ha telefonato offrendomi la parte ho chiesto subito di leggere il copione prima di dire la mia. Già dopo cinque minuti ero commosso e avevo provato delle sensazioni forti. Poi l’ho riletto ancora, la mattina seguente Pupi mi è venuto a trovare a Milano e gli ho confessato che, dopo un’attenta disamina su me stesso, sentivo di poter interpretare onestamente quel ruolo. Quando ho raggiunto la troupe a Roma ho chiesto a Pupi se ci fosse lo spazio per collaborare alla stesura dei testi, per aggiungere qualcosa – così accadeva in passato nei miei film. Girando mi sono accorto che tutto andava bene. L’unica cosa che ho chiesto di aggiungere è stato il cappello in testa nella scena in cui Nino mangia i ravioli e me lo ha permesso. Credo sia stata l’unica mia aggiunta, oltre alla drammaticità nel racconto che meritava una specifica cura proprio in quella direzione».
D: Accanto a Pozzetto, nelle prime immagini struggenti dell’opera, assistiamo a una straordinaria, intensa e luminosa Stefania Sandrelli…
Stefania Sandrelli: «È stata una sfida difficilissima creare un personaggio, che poi è la protagonista del film, ma per cui si ha poco tempo. Una delle cose più belle del cinema è il non detto e il non fatto. Per fortuna sapevo di avere una lavorazione estremamente frastagliata, anche se Caterina da giovane era la meravigliosa Isabella, con cui abbiamo già lavorato insieme in passato. Avevo poche pose perché all’inizio il mio personaggio muore e poi ho dei momenti in cui sono 65-67enne per cui non è stato facile. Quando mi fido mi affido completamente. È il primo in cui sono stata diretta da Pupi con cui avrei voluto lavorare in molti altri progetti, per cui avere la preziosità e anche l’emozione dell’attesa di poter finalmente fare cinema insieme – per altro alla nostra età – mi ha regalato una magia. Incontrarci tardi credo che sia stata proprio una cifra».
D: Chiara Caselli, lei è al secondo film con Avati, dopo una parte importante ne Il signor diavolo e anche in questo caso ha affrontato un’impresa non facilissima: portare sullo schermo un personaggio realmente esistente, che tutti noi conosciamo, rendendo una fisionomia e un carattere al tempo stesso tenerissimo e durissimo. Come ha lavorato con Pupi su questo?
Chiara Caselli: «La sera prima delle riprese de Il signor Diavolo ero terrorizzata e Avati mi disse: “Caselli non mi rovinare il film”. Questa volta non mi ha richiamata e allora vuol dire che è andata bene [ha affermato sorridendo]. Il mio personaggio è ispirato a Elisabetta Sgarb però nel lungometraggio si è scelto di denominarla la Figlia e quello è stato il focus con cui ho iniziato a costruire il personaggio. Quando poi ti trovi di fronte a una sceneggiatura così alta come quella di Pupi riesci a rintracciare tutti i dettagli necessari. Conosco Elisabetta, ma non ho voluto chiederle dei suoi genitori, ho preferito lavorare come se fosse un personaggio storico guardando interviste, articoli e ho trovato una descrizione di Elisabetta Sgarbi ad opera di Claudio Magris, il quale la ritraeva come “temeraria, coraggiosa, implacabile e lucidissima”. Queste caratteristiche mixate alle mie emozioni mi hanno permesso di poter raccontare la figlia in un momento particolar della propropria esistenza: quando muore la mamma e si prende cura del dolore del papà».
D: Nicola Nocella può presentarci la sua parte?
Nicola Nocella: «Sono al secondo sotto la sua direzione, nel mio percorso fino ad oggi ho esordito con lui e corrisponde anche all’ultimo lavoro fatto. Mi ha affidato il personaggio di Giulio e già il primo giorno mi disse che il mio personaggio, nell’economia della storia, era molto più grande di me perciò ho immaginato di essere al servizio di Nino da tantissimo tempo, come se fosse arrivato in quella casa da bambino. Sarò ripetitivo ma so che se c’è Pupi sicuramente saprò dare il meglio di me perché è lui che me lo tira fuori».
D: Serena Grandi ci parla della sua Clementina?
Serena Grandi: «È una grande donna, mi sono ispirata all’essere madre, cercando di limare gli angoli del suo carattere per poter dare un futuro meraviglioso al figlio, proprio come provo a fare nella realtà con il mio Edoardo».
D: Si avverte una grande complicità tra gli interpreti…
P. Avati: «Di fronte a una storia così non potevano esserci conflitti, tanto più essendoci l’affettività che fa da fil rouge di ogni fotogramma. Credo che abbia avuto un effetto terapeutico su tutti noi».
D: Qual è il messaggio che può arrivare a un pubblico di giovani?
P. Avati: «Credo di aver già avuto dei segnali di ritorno, sorprendentemente positivi. È evidente che una storia d’amore così esagerata e totalizzante seduce tutti. Poi che sia verificabile, di questi tempi, so perfettamente che è anacronistica; però che uno idealmente quando conosce una ragazza si innamora follemente pensi: voglio stare con lei per tutta la vita mi sembra che sia assolutamente normale, sarebbe grave se non fosse così. Questa precarietà degli affetti mi sembra che sia una delle componenti meno apprezzabile del nostro presente. Penso, quindi, a tutte le età, dagli 8 anni ai 97 – età a cui arriverò io – mi sembra che sia assolutamente fruibile. Essendo arrivato a 82 anni, so l’importanza che ha avuto l’illudersi: la vita trova un suo significato se siamo capaci di ri-illuderci, quando insegno ai giovani attori ricordo loro di sognare. Viviamo in un momento in cui si fanno solo somme e sottrazioni. Quando vendevo bastoncini di pesce al supermercato, se non avessi avuto la capacità di ‘mentire a me stesso’, non sarei riuscito a realizzare 52 film o a pensare che un giorno mi sarei ritrovato a parlare, in questa situazione, con accanto il capo di Sky».
D: Come vi siete sentiti ‘guardati’ dal maestro Avati?
S. Grandi: «Io mi sento sempre amata da Pupi e per me è molto importante».
L. Musella: «Ho notato che ha una capacità di guardare dentro e di osservare quello che sei e non esattamente quello che fai o che hai fatto precedentemente, ma coglie le tue qualità umane e questo è veramente molto raro».
I. Ragonese: «Mi sono sentita protetta, non sola, avvertivo che condivideva con me. Ti segue in una maniera tale per cui, a volte, essendo tanto schietto, ti dice le cose senza giri di parole e questo approccio è anche un atto di fiducia che si crea tra lui e l’attore».
S. Sandrelli: «Lui veniva sul set e mi guardava girare da una posizione molto vicina» [lo ha affermato con l’entusiasmo di chi si sente accompagnata].
C. Caselli: «Pupi utilizza il monitor di controllo per controllare l’inquadratura, poi è sul set vicino all’attore e senti la sua energia, che è lì, pronto a indirizzarti e supportarti verso l’emozione che desidererebbe che portassi in quel momento della scena. Si crea un’alchimia molto rara e bellissima».
R. Pozzetto: «Ricordo che alla fine della lavorazione quotidiana, quando passavo per salutarlo, mi metteva una mano sulla spalla e mi diceva: “sei andato bene, sono contento. Vedrai che ti servirà molto quello che stai facendo”. In tal senso mi faceva sentire tranquillo perché qualche volta, lasciare la filosofia di voler comunicare un po’ nello stile della commedia all’italiana, dove non ci si dimentica mai dell’umorismo e della satira, aiuta. [Con trasporto ha ammesso] mi piaceva ricevere i complimenti da quello che reputo un amico, un compagno d’avventura, un ‘papà’, che ringrazierò sempre».
N. Nocella: «Mi sento ricambiato ed è qualcosa che non succede spesso. Mi sono sempre sentito molto amato da Pupi».
F. Gifuni: «In questo suo stare vicino sul set alla scena è come se Pupi guardasse sempre con un occhio la storia e anche quello che sta facendo l’attore – se gli crede o no in quel momento – ma con l’altro occhio lui guarda sempre l’essere umano, guarda quello che c’è dietro il personaggio. Questo ti fa sentire molto a casa, non ti senti mai giudicato come attore per il gesto performativo, ma c’è sempre uno sguardo prima all’uomo e poi a quello che sta compiendo».
Maria Lucia Tangorra