I dolori del giovane Paul
Le tematiche ci sono tutte, il cast pure. Siamo nel 1996 e l’ormai affermato (e apprezzato) cineasta Arnaud Desplechin ha dato vita a un prodotto che – non solo per durata (tre ore tonde tonde), ma anche per l’universalità dei temi trattati – può di diritto essere definito maestoso. Il lungometraggio in questione è il riuscito Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle), riproposto in Italia all’interno del Rendez-vous, Festival del Nuovo Cinema Francese 2018, nonché lavoro fortemente introspettivo, a tratti garrelliano, a tratti addirittura bergmaniano, dove un sempre ottimo Mathieu Amalric riesce a tenere banco per l’intera durata e si dimostra quasi un alter ego ideale dell’autore stesso. Un Mathieu Amalric che, per l’occasione, vesta i panni del ventinovenne Paul Dédalus, fidanzato da dieci anni con Esther (di cui, però, non è più innamorato da tempo) e che, alla costante, sfiancante ricerca dell’Amore Vero, intrattiene una relazione clandestina con Sylvia, la ragazza del suo migliore amico.
Un Paul Dédalus, dunque, che potrebbe facilmente – e sbrigativamente – definirsi una sorta di dongiovanni. E invece no. Comment je me suis disputé… ci mostra, al contrario, il difficile percorso interiore del giovane protagonista, il quale, a sua volta, per (quasi) l’intera durata del lungometraggio non fa che ripercorrere le tappe della propria esistenza, senza tralasciare nemmeno i ricordi d’infanzia.
Ed ecco che – alla bergmaniana maniera, appunto – vediamo il ragazzo assistere in prima persona a scene del proprio passato che lo vedono, bambino, giocare con fratelli e cugini, quando tutti i problemi dell’età adulta sembravano lontani anni luce. E, a quanto pare, il maestro Ingmar Bergman ha avuto su Arnaud Desplechin un’influenza molto più forte di quanto inizialmente si possa immaginare. Lo dimostrano i copiosi dialoghi presenti durante tutta la durata del lungometraggio: dialoghi che somigliano più che altro a flussi di coscienza, durante i quali si analizzano e si iperanalizzano tutti i più reconditi pensieri. Dialoghi che, magistralmente, riescono a reggere quasi l’intero lavoro, dove, grazie anche a intensi primi piani su volti ed espressioni dei protagonisti, abbiamo un (quasi del tutto) esaustivo ritratto dell’essere umano nel momento in cui si rapporta a sentimenti e sessualità.
E poi, non per ultime, ci sono le donne. Le donne qui raccontate da Desplechin sono tutte (chi in un modo, chi nell’altro) apparentemente deboli, fragili e vulnerabili, ma, in realtà, incredibilmente forti e volitive, perfettamente in grado di pilotare gli eventi secondo i propri desideri e capaci di soggiogare gli uomini nelle maniere più impensabili. Un vero e proprio “inno alle donne”, se così si può definire, questo importante lavoro di Desplechin. Particolarmente interessante, a tal proposito, il momento in cui, in seguito alla rottura (apparentemente) definitiva tra Paul e Esther, abbiamo un improvviso cambio di prospettiva e, per qualche minuto, vediamo il tutto svolgersi secondo l’ottica della stessa Esther, la quale ha appena iniziato una nuova vita lavorativa. Un cambio di prospettiva che, tuttavia, dura ben poco. Che sia, questa breve durata, dovuta alla difficoltà stessa (secondo l’autore) del dover raccontare le donne? Al pubblico, ogni libera e soggettiva interpretazione.
Marina Pavido