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Colonia

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VOTO: 6

Fuga dall’inferno

Sulla carta non manca certo l’ambizione, ad un film come Colonia diretto dal tedesco Florian Gallenberger. In partenza parrebbe un’opera intenzionata ad integrare la Storia con la maiuscola – il famigerato colpo di stato in Cile del 1973 benedetto dagli Stati Uniti, che mise al potere il sanguinario dittatore Augusto Pinochet ai danni del democraticamente eletto Salvador Allende – con la vicenda privata dei due giovani tedeschi Daniel e Lena, il primo fotografo rapidamente convertito alla causa comunista cilena, la seconda hostess di una linea aerea teutonica. Come ovvio perdutamente innamorati l’uno dell’altro. Poi il cambio di registro, allorquando dopo il golpe il giovane viene arrestato, torturato ed infine rinchiuso nella colonia Dignidad – nome quantomai paradossale e beffardo, da cui il titolo del film – vero e proprio simil-lager diretto da un ex ufficiale nazista che si ammanta di toni messianici. Lena riesce ad entrare nella struttura come aspirante suora per cercare di ritrovare l’amato ma scoprirà a proprie spese che la religione nel luogo centra fino ad un certo punto. E Colonia diventa così un autentico thriller dalle derive potenzialmente persino orrorifiche, i cui giorni di permanenza della fanciulla vengono scanditi dalle scritte in sovraimpressione ad aumentare la percezione del disagio nello spettatore.
Peccato però che parecchi difetti vadano ad inficiare quello che sarebbe stato, in teoria, un lungometraggio animato delle migliori intenzioni. La sceneggiatura non si risparmia incongruenze difficilmente credibili (ma come fa Lena, in un ambiente dove regna una sorveglianza ferrea e la delazione in seconda battuta, ad avere tutta quella libertà di movimento?), in aggiunta a svolte narrative del tutto prevedibili, come ad esempio lo scontato epilogo di un terzo personaggio coinvolto nella fuga della coppia. La regia di Florian Gallenberger, in compenso, sembra quasi intimorita dalla prospettiva di scavare ulteriormente nel torbido e rendere in tal modo Colonia un vero film di genere, mostrando l’orrore con il suo volto nudo e crudo. Se l’insieme formale si eleva di poco da una routine piattamente televisiva lo si deve esclusivamente alla in parte riuscita atmosfera di complotti e sospetti che permea l’intero epicentro narrativo del film, fatto che colloca Colonia in una dimensione cinematografica abbastanza atemporale, rifacendosi proprio a certi thriller di stampo politico molto in voga negli anni settanta-ottanta. Senza però quella sottigliezza di sfumature necessaria al definitivo salto di qualità. Anche il casting rappresenta alla perfezione la riuscita molto a corrente alternata di Colonia: se l’ottimo Michael Nyqvist – che i più ricorderanno come coprotagonista assieme a Noomi Rapace della celeberrima trilogia scandinava partorita dai testi di Stieg Larsson – gigioneggia da par suo nella parte dell’infervorato direttore della colonia e Daniel Brühl nel ruolo di Daniel si conferma interprete di sicura affidabilità, capitolo a parte merita la performance di Emma Watson nei panni di Lena. Diamo più che volentieri atto alla giovane attrice di stare facendo il possibile per non rimanere eternamente imprigionata in una dimensione adolescenziale “henrypotteriana” della sua carriera. L’interrogativo sulle sue capacità interpretative rimane però intatto, vista l’aria perennemente spaesata che assume in un film nel quale dovrebbe rappresentare la figura dell’eroina senza macchia né paura. La sua espressione, pressoché immutabile nel corso dell’intero lungometraggio, sembra più trasmettere il fatidico quesito “cosa ci faccio io in questa situazione” piuttosto che un personaggio femminile dalla grande caratura drammaturgica disposto a qualsiasi sacrificio allo scopo di salvare l’amato.
Al tirar delle somme si potrebbe definire Colonia una generosa ma ridondante opera di denuncia più della connivenza tedesca al regime militare di Pinochet che delle sanguinose purghe dello stesso, purtroppo ben note. Ed infatti in patria Colonia ha creato un certo scalpore. Sarà assai più difficile ottenere un’eco del genere in Italia, paese dove il passato – per giunta non di “appartenenza” – sgradevole viene sistematicamente sepolto senza alcuna tentazione di essere riesumato al fine di attribuire qualche responsabilità.

Daniele De Angelis

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