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Citizen Rosi

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VOTO: 8.5

«Orizzonte libero e testardo»

«Questo si chiama ciak. Hai capito? La claquette» e fa il gesto. Con queste immagini in bianco nero comincia Citizen Rosi. Un padre e un cineasta che spiega alla sua bambina, seduta sulle ginocchia – che si sentiva come se scalasse una montagna – , a cosa serva il ciak, il suo pane quotidiano. Non è un caso che questo viaggio fisico, emotivo e cinematografico prenda il via proprio così. A traghettarci è sua figlia Carolina (ne ha curato la regia insieme a Didi Gnocchi), che si distingue per la compostezza e quella capacità di saper raccontare (e raccontarsi) ora con la giusta distanza, ora con un’emotività spontanea che lascia il segno.
«Francesco Rosi ha inventato un nuovo stile narrativo per un cinema che prima di lui non esisteva. I suoi film nascevano da ricerche e inchieste sulla realtà del paese: lavorava sui documenti, su “ciò che era noto”. Ha raccontato il ‘potere’ che corrompe e si corrompe quando si mischia alla criminalità» (dalla nota ufficiale). Sin dai primi minuti si entra in punta di piedi nello studio di Rosi, tra pellicole di cui sembra quasi di annusarne l’odore e pagine di sceneggiatura memorabili. Il titolo del documentario, Citizen Rosi, prende spunto dalla rassegna dedicatagli a New York. «In un momento in cui nella nostra storia è così difficile sentirsi cittadino, essere stato definito cittadino è per me un invito ad andare avanti». La narrazione si snoda volutamente attraverso i suoi film posti non in ordine cronologico, ma «in base alla precedenza storica dei fatti di cronaca che raccontano. In questo modo, il documentario, non racconta solo il lavoro di Rosi, ma restituisce anche mezzo secolo della storia d’Italia». Questo è proprio uno dei punti di forza del film, cominciato quando il padre era ancora in vita. «Vorrei evitare che da questo documentario venisse fuori il mio desiderio di una mia auto-celebrazione», aveva affermato e questo è stato rispettato appieno. Si comincia con Salvatore Giuliano per poi proseguire con Lucky Luciano, La sfida, Il caso Mattei, Cadaveri eccellenti, Tre Fratelli. A estratti dai film si alternano testimonianze di chi ha lavorato con lui (magari come assistente alla regia, vedi Roberto Andò), si torna nei luoghi studiati al millimetro da Rosi, laddove spesso erano avvenuti i fatti reali che lo avevano spinto a indagare con la lente di ingrandimento della Settima Arte. Lui che, grazie alla sua schiena dritta e al coraggio di indignarsi, è stato in grado di anticipare il racconto «di una democrazia inquinata dalla corruzione fin dalla sua nascita». È stato Rosi ad affrescare con un crudo e al contempo poetico realismo come il Meridione fosse diventato una metafora di ciò che eravamo diventati (e lo siamo ancora), sbattendoci in faccia – ma sempre con eleganza – «il respiro lento e affannoso dell’Italia».
«I film che hanno rappresentato la nostra realtà vanno fatti vedere ai giovani perché non conoscono la nostra storia», ascoltiamo acutamente ed è un pensiero che fa capolino ancor prima che venga espresso. Più ci si addentra in questo documentario e più ci si sente orfani di quello sguardo, ma il bello dei grandi è che lasciano traccia. Scoprendo aneddoti, assistendo a sue interviste così come a quelle di magistrati (tra cui Vincenzo Calia che riaprì il caso sul Presidente dell’Eni Enrico Mattei o Gherardo Colombo, il quale svolse le indagini sulla P2), giornalisti (come Francesco La Licata) e artisti, cresce il desiderio di conoscere, vedere e rivedere la sua filmografia, imparare a essere scrupolosi e pazienti nella ricerca per non fermarsi a ciò che appare o ci viene propinato. «Nell’arte c’è l’idea della libertà e del rispetto dell’altro» sottolinea con convinzione Costa-Gavras e Rosi lo sapeva bene. Gian Maria Volonté se n’è assunto la responsabilità di incarnarlo col corpo e col volto. Oggi ci si potrebbe sentire orfani di tutto questo, ma loro vivono ancora in ciò che hanno lasciato materialmente, ma anche in ciò che hanno seminato. Le generazioni dei registi mutano, ma una coscienza civile è rintracciabile (con la propria cifra) in Marco Bellocchio, Marco Tullio Giordana (presente nel doc), Daniele Vicari (per citare i primi che ci vengono in mente ancora attivi). Sul piano attoriale in molti hanno già associato il modo di essere attore di Volonté e Fabrizio Gifuni. Noi ci permettiamo di rilanciare la palla anche in questo caso, perché ognuno è un pezzo unico, Gifuni vive in un tempo diverso, ma è figlio di quella coscienza e non a caso in un’intervista aveva dichiarato: «come diceva Volonté, in una certa misura “tutto il cinema è politico” nel senso che tutto il cinema instaura un rapporto, cosciente o incosciente, con la pòlis». Detto da chi pesa le parole e sa materialmente ed eticamente creare un «campo magnetico» con lo spettatore (in primis a teatro), tutto ciò acquista una risonanza diversa e ci fa sperare che un “risveglio” è possibile, incontrando artisti scomparsi ma che, come ben afferma Saviano a Rosi, «sembra che i tuoi film ci parlino ancora oggi», e di oggi a cui non basta il “compitino”. «La verità non è sempre rivoluzionaria», dice provocatoriamente l’autore di Cristo si è fermato a Eboli (girato mentre era stato sequestrato Aldo Moro).
«Quale democrazia siamo riusciti a costruire? A cosa è servito l’impegno civile di persone come Franco (così lo ha sempre chiamato, nda)?», chiosa la figlia, lanciando (metaforicamente) il sasso in uno stagno.
Citizen Rosi è stato presentato Fuori Concorso alla 76esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è stato distribuito come evento dal 18 al 20 novembre nei nostri cinema e prossimamente sarà trasmesso su Sky Arte.

Maria Lucia Tangorra

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