È lui o non è lui, questo è il problema
Spinto da un precoce sentimento di ribellione, Arthur Rimbaud consumò tanto precocemente quanto velocemente la sua esperienza poetica, concentrando la sua produzione tra i sedici e i vent’anni. Viaggiatore infaticabile, dal 1880 lasciò l’Europa per l’Africa dove esplorò regioni ancora sconosciute dell’Etiopia. Tornato a Marsiglia sofferente per un tumore al ginocchio, morì in seguito all’amputazione della gamba destra nell’ospedale della città.
Con queste poche righe abbiamo provato a sintetizzare la controversa esistenza e la straordinaria carriera di uno dei massimi esponenti della letteratura mondiale di tutti i tempi. Righe, queste, che ne possono ripercorrere in un battito di ciglia la biografia, ma che non sono in grado di restituirne nella giusta misura la grandezza e l’immenso talento, quello che gli ha permesso di andare a occupare un posto di riguardo nell’Olimpo degli scrittori e di conquistare la nomea di “Mito”. E dietro ogni figura mitologica che si rispetti, di solito c’è sempre una fitta nebbia di mistero ad avvolgerne la sfera pubblica e privata. In tal senso, il celebre poeta francese non fa eccezione, con questa indecifrabile aurea che lo ha accompagnato tanto nella vita quanto nella morta ad avere attirato l’attenzione di rappresentanti delle varie arti e studiosi di tutte le latitudini, tra cui figura anche il nostro Roberto Vecchioni e il suo brano dal titolo “A.R.”, contenuto nell’album “Elisir”. Inutile stare qui a elencare le tantissime creazioni artistiche e i relativi autori che a lui e ali suoi scritti si sono ispirati nell’arco dei decenni successivi alla dipartita, ma nella lista sono presenti anche una serie di opere audiovisive, a cominciare dalla co-produzione italo-francese del 1970 di Nelo Risi Una stagione all’inferno, che ripercorre la vita del poeta dal suo incontro con Verlaine fino al viaggio in Africa, con Terence Stamp chiamato a interpretare Rimbaud.
Ultimo in ordine di tempo, cinematograficamente parlando, a interessarsi all’enfant prodige transalpino è il documentarista Bruno Bigoni che nei confronti di Rimbaud ha da sempre nutrito una sviscerata e immensa passione. Una passione, la sua, che lo ha spinto a realizzare Chi mi ha incontrato, non mi ha visto – L’ultima fotografia di Arthur Rimbaud, presentato in anteprima alla 34esima edizione del Torino Film Festival nella sezione After Hours e a pochi giorni di distanza in quel di Milano al Filmmaker Festival 2016.
Quello firmato dal regista lombardo non ha però nulla a che vedere con i classici biopic, con la sua ultima fatica dietro la macchina da presa che per stile, formato e genere, sceglie di percorre strade ben diverse, ossia quelle del mockumentary. Non si tratta, dunque, di un’esplorazione a 360° più o meno esaustiva della vita e della carriera del poeta, come si è soliti procedere nelle tradizionali biografie, ma un’investigazione postuma su ciò che non si sa o non si è mai dovuto sapere sul suo conto. In tal senso, la mente torna per assonanze ed elementi in comune a Road to L. di Federico Greco e Roberto Leggio, con la coppia che per l’occasione è tornata sulle tracce di H. P. Lovecraft per scoprire se ci fosse un possibile legame tra la letteratura horror dello scrittore statunitense e gli oscuri racconti del Delta del Po, una remota e misteriosa zona del nord Italia. Di conseguenza, la scelta di Bigoni di ricorrere al mockumentary non è particolarmente originale, visti i precedenti e il largo utilizzo che se ne sta facendo negli ultimi anni a tutte le latitudini, ma il canovaccio steso sulla timeline dal regista milanese, i risvolti accattivanti della vicenda e i tanti quesiti ancora senza una risposta legati alla parabola umana del protagonista, ben si prestano con le specifiche del genere in questione. L’autore scende in campo e ci mette la faccia, così come Greco e Leggio prima di lui, sfruttando gli stilemi e le tecniche collaudate del finto documentario, come ad esempio il P.O.V. e i finti materiali d’archivio. All’epoca della realizzazione di Road to L. fu il ritrovamento di un manoscritto a dare il via alle ricerche, mentre nel caso di Bigoni è una fotografia mai pubblicata, che potrebbe aprire nuovi scenari e rivelare aspetti inediti della e sulla breve esistenza di Rimbaud, il motore portante. Ovviamente, non né faremo cenno perché altrimenti vi priveremmo del gusto della visione. Per cui, lasciamo che sia la fruizione stessa a svolgere il compito; una fruizione piacevole che offre alla platea qualche sorriso, una linea mistery da seguire con partecipazione e anche degli interessanti spunti di riflessione. Si perché il cuore pulsante di Chi mi ha incontrato, non mi ha visto in fin dei conti è un altro, ossia il credere o non credere, il fidarsi solo delle fonti ufficiali o avere il coraggio di cercarne delle altre per avvicinarsi il più possibile alla realtà. Quest’ultima è la strada che ha deciso di percorrere Bigoni nel suo nuovo film, ma gli ostacoli che dovrà affrontare saranno molteplici e via via sempre più difficili da superare. Ce la farà? A voi l’ardua sentenza.
Francesco Del Grosso