Un inverno che è eterna primavera
Otar Ioseliani ci ha lasciati nel dicembre 2023. Prima aveva avuto modo di tracciare un solco importante nella Storia del Cinema, seminando tra la vecchia Unione Sovietica, la sua Georgia e la Francia immagini e storie dal timbro inconfondibile. Un universo a se stante, potremmo anche dire, nel quale ad avere diritto di cittadinanza sono un profondo umanesimo e una sottile ironia, le montagne del Caucaso e i bistrot parigini, lo spetto della guerra e un insopprimibile istinto vitale, l’eleganza dei gesti e una delicata misura nelle parole, la volatilità del Caso e il ben più solido appiglio fornito dal Vino.
Si era fatto finora poco per ricordarlo, almeno da noi. In attesa che la retrospettiva del prossimo Bergamo Film Meeting dia un seguito a tutto ciò, ci hanno pensato le autoproclamatesi “Brigate Ioseliani” (ovvero il regista Carlo Shalom Hintermann coi suoi vecchi “compagni d’arme” Luciano Barcaroli e Daniele Villa Zorn, coautori a suo tempo di un libro importante come Ioseliani secondo Ioseliani) ad omaggiarlo nella maniera giusta: venerdì 2 febbraio, presso la Casa del Cinema, è andato in scena un evento simpaticamente ribattezzato “Buon compleanno Otar!”, visto che in quella data il regista georgiano avrebbe compiuto 90 anni. Praticamente un modo di celebrare la morte con la vita. Giacché nel corso della serata, oltre alla proiezione di cui vi diremo, si sono susseguiti diversi, sentiti interventi volti a ricordare con affetto la sua grandezza artistica e ancor più umana. Da quello introduttivo dello stesso Hintermann a quelli dei famigliari, dalle accorate parole dei critici cinematografici e direttori di festival presenti in sala o da remoto (belli gli omaggi resi in presenza da Giona A.Nazzaro e Pedro Armocida, ancor più il saluto di Carlo Chatrian, che nel videomessaggio proiettato alla Casa del Cinema abbiamo visto brindare alla sua memoria con un calice di vino rosso: scelta decisamente iconica), passando poi attraverso altre testimonianze video di cineasti georgiani chiamati in qualche modo a raccoglierne il testimone, tra cui quel Dito Tsintsadze del quale ricordiamo ancora oggi Lost Killers (2000) con particolare entusiasmo. Ma in chiusura di serata il doveroso tributo si è trasformato per noialtri in scoperta cinefila: spazio quindi all’ultima prova da regista del compianto Otar, Chant d’Hiver (2015).
Tra gli ospiti della casa del Cinema diversi critici e lo stesso Hintermann si sono soffermati su un dato di fatto, per niente rassicurante, ovvero il progressivo disinteressarsi, da parte della distribuzione italiana, di parabole autoriali importanti. Come quella di Otar Ioseliani, cineasta le cui pellicole un tempo approdavano a un normale percorso distributivo senza alcuno sforzo. Ciò non è accaduto invece con questo suo ultimo lungometraggio, Chant d’Hiver, rimasto recluso a lungo nel circuito festivaliero. Già sulla carta questa “omissione” ci pareva assurda, dopo esserci finalmente gustati il film sul grande schermo può apparirci persino delittuosa.
Verrebbe spontaneo definirlo un film-testamento, ma al netto di quelle scorie di malinconia depositate inevitabilmente dal tempo e dell’attenta osservazione delle disgrazie umane, Chant d’Hiver è opera cinematografica che sorprende tanto per la sua coerenza con la poetica dell’autore che per la sua giocosità, per quella freschezza di linguaggio che tanti film-maker contemporanei più o meno giovani se la sognano. L’andamento della narrazione è rapsodico. Come lo era stato del resto in altre occasioni. Nell’ineffabile prologo assistiamo in un clima da “terrore” parigino all’incontro con la ghigliottina dell’aristocratico di turno, la cui aria beffarda e sardonica introduce però una prima nota dissonante. Ancora una volta, come verrà confermato nel prosieguo del film, fatti di per sé tragici vengono osservati e messi in scena con un timbro decisamente ironico, etereo, disincantato. Tale impronta vi è pure nel “quadro” successivo, ossia il caleidoscopico ritratto di un conflitto armato in anni a noi più vicini, che è lecito supporre abbia luogo in qualche territorio dell’Europa Orientale, laddove pur crudele e spietata la rappresentazione della guerra assume coloriture grottesche e forme stilizzate. Ulteriore volo pindarico, dal fronte ci si sposta con un escamotage di nuovo in Francia, paese d’elezione del regista georgiano, presso il quale assisteremo al segmento narrativo più lungo e corposo: una pittoresca, picaresca sarabanda, che vede all’opera ladre acrobatiche e Baroni spiantati (strepitosa ed emozionante, qui, la partecipazione attoriale di Enrico Ghezzi), piccole artiste in erba e ombrosi malviventi, anziani con un sapere più radicato della massa che li circonda ma oltremodo testardi, interpreti transalpini di grande spessore (Mathieu Amalric, Tony Gatlif) e qualche attore georgiano meno conosciuto da noi ma altrettanto bravo.
Un po’ come nei suoi lungometraggi di finzione più suggestivi, su tutti I favoriti della luna (1984) e Addio Terraferma (1999), Ioseliani in Chant d’Hiver si diverte a intrecciare tra loro le vicende dei personaggi, a pedinare il passaggio di mano degli oggetti, a seguire persino il destino postumo di teste rotolate dalla ghigliottina. Il tutto in una Parigi al contempo concreta e onirica, surreale, dove umoristicamente si sfiora addirittura il senso (il)logico di un cartoon d’oltreoceano, allorché un clochard viene schiacciato accidentalmente da un rullo compressore e la sua sagoma appiattita viene fatta passare tranquillamente sotto una porta. Lo humour e le soluzioni stranianti che caratterizzano tutto il racconto, però, non annullano ma semmai amplificano, pur attraverso la prospettiva sghemba, immaginifica e iperrealistica cristallizzata in ogni singola inquadratura, quell’impressione di profonda empatia nei confronti del genere umano che il cinema del Maestro georgiano non cessai mai di trasmettere.
Stefano Coccia