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Cerrar los ojos

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VOTO: 9

Soy Ana!

Forse è uno dei registi meno prolifici della storia del cinema. Parliamo di Victor Erice, il cui primo lungometraggio risale al 1973, Lo spirito dell’alveare, e che realizza ora il suo quarto lungometraggio, dopo cinquant’anni, con una distanza di un decennio sia tra il primo e il secondo che tra il secondo e il terzo, e di trent’anni tra il terzo e il quarto. Si può fare cinema solo quando si realizzano le condizioni perfette, il che avviene rarissimamente. Proprio come per i quadri del pittore Antonio López, ritratto da Erice in Il sole della mela cotogna, che cerca invano la giusta illuminazione per dipingere una mela cotogna. La nuova mela cotogna di Erice si intitola Cerrar los ojos (il titolo internazionale è Close Your Eyes) ed è stata presentata sulla Croisette come Cannes Première. Assai probabile che Erice trascorra una vita ritirata, ascetica e contemplativa come quella del protagonista del film, l’ex-regista Miguel Garay, in cui riversa una buona dose di autobiografia, che vive in un piccolo villaggio di pescatori, in una casetta riparata, si nutre dei pomodori che lui stesso coltiva, e di cui controlla la maturazione proprio come le mele cotogne di cui sopra, e dei pesci che va a pescare in barca con i suoi amici pescatori. A rompere quella monotonia, Miguel viene contattato da una trasmissione televisiva stile “Chi l’ha visto?” per il caso della scomparsa di Julio Arenas, un attore celebre che fece sparire le proprie tracce proprio mentre stava lavorando a un film di Garay, determinando così la fine delle riprese nonché la fine della carriera dello stesso regista.
Cerrar los ojos è un film di memorie del passato che riaffiorano, di archivi polverosi, come nature morte, che si riaprono, di scrigni pieni di ricordi, ma anche dei depositi d’arte, le cineteche, il museo del Prato. Ed è la storia di un’altra mela cotogna mancata, quella del film, nel film, La mirada del adiós, il film mai finito e impossibile da finire, proprio come era successo a Erice con il El embrujo de Shangai, tratto da Juan Marsé, poi ripreso e ultimato da Fernando Trueba. Garay sta lavorando, nel suo studio, su un autore che ha deciso, a un certo punto, che la sua opera d’arte non sia più un film ma la sua vita. Ed Erice, con Cerrar los ojos, attraversa la sua vita, ritorna al suo cinema, interconnette le due dimensioni. Si scopre alla fine che l’attore Julio Arenas è vivo e si trova in una casa di riposo gestita da suore, avendo perso la memoria, soprannominato dalle religiose Garay con la figlia dell’attore accorre in quel luogo, e quando la seconda lo vede, si fa riconoscere esclamando «Soy Ana!», la stessa frase, della bambina protagonista, che chiude il primo film del regista, Lo spirito dell’alveare, pronunciata dalla stessa attrice, cinquant’anni dopo. Esclamazione che fa scardinare il dispositivo vita/cinema messo insieme da Erice.
Solo il cinema può garantire il riaffiorare della memoria perduta, della vita come del cinema stesso. Ancorché è evidente il ruolo comunicativo della televisione, solo il cinema può fare il miracolo anche se non sarà mai come Dreyer. Proprio come ci sono medici che teorizzano l’uso del cinema per aiutare i malati di Alzheimer, così si decide di aiutare Julio/Gardel proiettando in sua presenza le sequenze del film mai finito, La mirada del adiós. L’ultimo pezzo dell’ultimo film di Erice è quindi un’immersione nella caverna platonica del suo cinema. Ancora in una dimensione vintage, tirando fuori dal magazzino la pellicola nella pizza impolverata, omaggiando le vecchie sale, i cineclub di una volta. Durante la proiezione Erice non fa vedere il fascio di luce primario, ma Miguel, il suo alter ego, è ripreso mentre si volta, nel gesto impossibile di Orfeo, ad ammirarlo estasiato, con il volto illuminato. Il primo film di Erice, Lo spirito dell’alveare, iniziava con una proiezione, di Frankenstein, nel villaggio. Ora nel suo ultimo film ci si ritrova tra le poltrone di una sala, ancora con Ana, che era protagonista, bambina, di quell’opera primigenia. Le poche mele cotogne di Erice sono ora messe come in scatole cinesi.

Giampiero Raganelli

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