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Caro Evan Hansen

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VOTO: 6.5

C’è posta per me

Non è la prima e non sarà nemmeno l’ultima volta che uno spettacolo di successo passa dalle tavole del palcoscenico di Broadway al grande schermo. È accaduto in passato e riaccade adesso con l’adattamento cinematografico di Caro Evan Hansen, il musical in due atti con musiche e parole di Benj Pasek e Justin Paul e libretto di Steven Levenson. Dal debutto in teatro approdo in sala di anni ne sono trascorsi sei, con Michael Greif che ha ceduto il testimone a Stephen Chbosky, qui alla sua quarta fatica dietro la macchina da presa. Scelta, questa, azzeccata visti i precedenti del regista e sceneggiatore statunitense, già autore di intensi e toccanti teen-drama, che con la storia al centro del musical in questione aveva sulla carta molti punti di contatto e temi comuni.
Così dopo Noi siamo infinito e Wonder, Chbosky torna a parlare di temi a lui cari come la crescita, i legami familiari, l’amicizia e soprattutto la diversità come ricchezza. Lo fa portandoci nella vita di un liceale di nome Evan piuttosto solitario, che soffre di un grave disturbo di ansia sociale. Il ragazzo vorrebbe essere semplicemente compreso e sentirsi parte di qualcosa, ma risulta una cosa alquanto difficile quando ti ritrovi nel caotico mondo degli adolescenti, dove tutto si svolge sui social media, anche i legami o la costruzione di un’identità. La svolta arriva con un tragico evento: quando un suo compagno di classe si suicida, Evan decide di intraprendere un percorso all’interno di se stesso. Questo viaggio metaforico dentro di sé lo porterà a scoprirsi, ma soprattutto a farsi conoscere dai suoi coetanei e a essere accettato da loro, provando a vivere quella vita che finora si è negato e che ha tanto desiderato…
Caro Evan Hansen, presentato tra gli Eventi Speciali di Alice nella Città della 16esima Festa del Cinema di Roma, parte dai temi e dai punti chiave del romanzo di formazione per mostrare il percorso di apertura al mondo dell’adolescente di turno, chiamato dalla vita e dal destino a uscire dal guscio e a scrollarsi di dosso quelle problematiche che per anni lo hanno isolato dai suoi simili e da ciò che lo circonda. Per farlo dovrà prendere decisioni difficili, spalancare le porte del cuore , affrontare sfide con se stesso e attraversare momenti dolorosi.
Con i film precedenti e il suo lavoro parallelo da sceneggiatore, il regista americano ha dimostrato di conoscere la materia e di saperla maneggiare con la cura che merita. La base di partenza gli consente di procedere con scioltezza e sicurezza, con il plot e i personaggi che sono assolutamente nelle sue corde, le stesse che riesce a fare vibrare nei cuori degli spettatori quando l’asticella delle emozioni inizia a salire. Peccato che di tanto in tanto si scivoli in un sentimentalismo un po’ trito che causa una febbrile salita e discesa dell’asticella. Nulla che per sua e nostra fortuna Chbosky non riesca a controllare e riequilibrare.
E dove non arrivano le interpretazioni del giovane Ben Platt e delle più esperte Julianne Moore e Amy Adams, ci pensano le incursioni canore che, a intervalli regolari, si affacciano sulla timeline offrendo alla platea momenti più o meno efficaci. Non si può dire di quelli coreografici e danzereschi, quasi inesistenti tranne qualche timido tentativo che passa quasi inosservati. Quelli forse è meglio lasciarli ad High School Musical e compagnia bella.

Francesco Del Grosso

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