I tormenti e i deliri del vecchio Phonse
La figura quasi mitologica di Al Capone è stata portata numerose volte sul grande schermo, in tutti i modi possibili e immaginabili, tanto da grandi autori quanto da artigiani del cinema. L’interpretazione più celebre e riuscita è probabilmente quella di Robert De Niro in The Untouchables – Gli intoccabili – la sua frase “Sei solo chiacchiere e distintivo” è passata alla storia – ma prima di lui ci sono stati Paul Muni (Scarface, dove il personaggio è traslitterato in Tony Camonte), Rod Steiger (Al Capone), Jason Robards (Il massacro del giorno di San Valentino), Ben Gazzara (Capone) e forse altri ancora. Ma finora nessuno aveva trasposto al cinema il personaggio di “Phonse” così come ha fatto Josh Trank – quello di Chronicle e Fantastic 4 – con il suo Capone (2020). Nei panni del protagonista c’è un camaleontico attore del panorama contemporaneo, il britannico Tom Hardy, ma ciò che è rivoluzionario è la prospettiva da cui è messo in scena il celebre gangster: se i film realizzati finora avevano rappresentato la sua ascesa e caduta nel mondo del crimine o la storia di chi gli ha dato la caccia, il nostro film racconta – in modo volutamente schizofrenico e non lineare – l’ultimo anno di vita del boss. Quando cioè era alle prese con la sifilide, la demenza senile e vari ictus che ne condizionavano pesantemente la salute fisica e mentale: Capone non è un gangster-movie nel senso stretto della parola, ma un film sulla morte, un crudo dramma psicologico impregnato di decadentismo e desolazione, condizioni rese anche visivamente da una fotografia quasi gotica negli interni, in contrasto con gli esterni luminosi della Florida; è un film sulla fine di un’epoca, ma soprattutto sulla misera conclusione di un uomo e di un (anti)mito. Come spiega la didascalia iniziale, Al Capone fu arrestato per evasione fiscale nel 1931: durante la detenzione subì un crollo a causa della malattia, per cui dieci anni dopo – non essendo più considerato una minaccia – fu rilasciato e condotto in esilio in Florida, dove visse gli ultimi anni sotto la sorveglianza governativa, fino alla morte nel 1947. Capone è ambientato dunque durante il suo ultimo anno di vita, nella gigantesca e lussuosa villa dove l’ex boss (Tom Hardy) vive con la moglie Mae (Linda Cardellini) e il figlio, pochi parenti, il fedele Gino e numerosi servitori, tutti impegnati ad accudirlo. La sua vita è provata non solo dalle precarie condizioni di salute, che lo rendono non autosufficiente, ma anche da ricordi e rimorsi che lo tormentano: tutto questo provoca in lui deliri e allucinazioni, che gli fanno vedere ad esempio un suo vecchio amico, Johnny (Matt Dillon), fatto uccidere da lui anni prima poiché ritenuto a torto un traditore. Il lusso apparente in cui vive nasconde però una precaria condizione economica, che obbliga la famiglia a vendere oggetti di valore come le statue. Nel frattempo, l’FBI sorveglia la casa e ascolta le conversazioni, per rintracciare quei dieci milioni di dollari che sono scomparsi, e anche il medico di fiducia (Kyle MacLachlan) collabora in segreto con i governativi per estorcergli le informazioni: quel segreto che forse neanche lui conosce più, ma che è ambito da tutti, per vari motivi. A complicare ulteriormente la situazione, si insinua nella loro vita il figlio segreto di Capone. La vicenda del boss italo-americano è dunque narrata in modo completamente nuovo, anarchico e anticonformista, a cominciare dall’icona stessa, a cui dà vita un istrionico Hardy, particolarmente a suo agio nei ruoli da villain: Al Capone non è più il feroce e potente gangster col mondo ai suoi piedi, come eravamo abituati a vedere nei precedenti film e nell’immaginario comune, bensì un uomo ammalato, un disabile che vomita, si urina addosso, defeca nel letto, è in preda a una demenza che la regia traspone sotto forma di immagini senza soluzione di continuità con la vita reale. A tal punto che spesso realtà e allucinazioni si confondono e ci confondono – ma l’effetto è, secondo chi scrive, del tutto voluto. Cosicché, per esempio, seguiamo il personaggio di Matt Dillon mentre va a fare visita al boss e lo porta a pesca in barca, per poi scoprire solo in seguito che Phonse (così è chiamato nel film) sta parlando da solo, ed è tutto il prodotto della sua immaginazione. Oppure ancora, lo vediamo imbracciare il suo mitra d’oro (l’arma classica dei gangster-movie d’epoca, il mitra con il caricatore rotondo) e fare strage dei suoi servitori – dei quali lungo il film non si fida mai: ma anche questo avviene solo nella sua mente (ferisce solo un domestico alla gamba), eppure la diegesi ce lo presenta come un fatto vero, salvo poi mostrarci la realtà. La narrazione è dunque condotta dalla prospettiva di Capone, con un Tom Hardy che giganteggia – sia come presenza fisica, sia come performance – ed è protagonista assoluto della storia, con la macchina da presa che indugia spesso e volentieri in primi piani e dettagli: le cicatrici (che gli valsero il soprannome di Scarface, cioè “sfregiato”), gli occhi iniettati di sangue, i capelli unti, la pelle avvizzita, il sigaro in bocca, quasi sempre abbigliato con vestaglie rosse o blu – solo in una scena compare con il classico vestito elegante ritratto di solito nei gangster-movie. Il registro adottato da Trank è mutevole. Talvolta vira sul grottesco: la carota in bocca al posto del sigaro dopo che il medico gli ha vietato di fumare, i giochi a nascondino coi bambini che ogni anno invita per una sorta di beneficenza, il rotolarsi nel fango, il Nessun dorma che periodicamente sentiamo e il cui carattere aulico contrasta con la bassezza delle immagini. Talvolta invece vira più sul gangster-movie classico: dunque, le scene dedicate alle indagini dell’FBI, ma soprattutto la lunga visione che lo riporta ai fasti degli anni Trenta, con feste eleganti, sparatorie in strada, e la violenta esecuzione del presunto traditore, pugnalato ripetutamente al collo dal braccio destro Gino. E in proposito, come già detto, la regia vira spesso anche sui deliri di Capone e sulle sue manie di persecuzione, in tutti i bizzarri modi che abbiamo descritto – vedasi la scena in cui immagina di camminare tra i cadaveri, un altro chiaro segno dei sensi di colpa che lo divorano. La carne al fuoco è tanta, e sicuramente una durata maggiore dei 100 minuti circa avrebbe giovato per narrare meglio alcuni elementi che rimangono abbozzati, come i dieci milioni scomparsi, il figlio segreto, i ricordi che lo tormentano; eppure Capone funziona bene anche così, nel suo carattere magari talvolta impreciso ma appassionante, e nel suo essere sicuramente un unicum: perché il nostro film non è un biopic convenzionale, ma una narrazione ricca di input e sotto-trame presentate in modo volutamente disordinato, come se fossero i frammenti della sua mente malata.
Davide Comotti