Raccontini (a)morali
Una turbinosa novità arriva a sconvolgere il cinema italiano e il Festival del Film di Roma 2014, dove è stato presentato nella sezione “Gala” Buoni a nulla, terza fatica cinematografica di Gianni Di Gregorio. Il personaggio principale Gianni – interpretato come di consueto dallo stesso regista/sceneggiatore, in un cortocircuito tra finizione e realtà – infatti abbandona i toni gentili e rassegnati dei primi due film per diventare addirittura “cattivo”. Dopo il piccolo e divertente Pranzo di Ferragosto (2008) e il più studiato e meno spontaneo Gianni e le donne, si potrebbe addirittura parlare di evoluzione della specie: la metamorfosi di Gianni da neo-Fantozzi impiegatizio con licenza di subire soprusi di ogni genere a uomo furbo, scaltro e perciò padrone del proprio destino ha pochissime spiegazioni dal punto di vista narrativo ma risulta abbastanza gratificante per lo spettatore medio, che finalmente può considerare il personaggio con vicinanza ed empatia, abbattendo la simbolica quinta parete del grande schermo. Precisiamo subito però che l’innovazione darwiniana riguarda solamente – e perdipiù in modo limitato e superficiale – il personaggio principale del film, non certo il cinema in sé di Di Gregorio; che rimane assolutamente garbato e innocuo, capace di strappare qualche sorriso qua e là ma senza mai nemmeno provare a graffiare veramente. Sempre ammesso – e più di qualche dubbio a questo viene, dopo tre film – che ne abbia davvero intenzione.
La maschera digregoriana, ormai ampiamente sperimentata, comunque funziona, almeno in parte. Sorta di incrocio tra un Buster Keaton meno malinconico e il mitico Monsieur Hulot di Jacques Tati senza ovviamente il genio mimico e cinematografico dell’artista transalpino, Gianni rimane un discreto catalizzatore di tenerezza (prima) e simpatia popolare. Nella seconda parte di Buoni a nulla diventa addirittura maestro di vita del personaggio interpretato da Marco Marzocca, esponente principe proprio di quel buonismo assoluto che Gianni non è mai stato, anche nei momenti di vessazione più turpe. Forse è proprio in questo frangente che il “messaggio” propugnato dal Di Gregorio regista cerca di farsi morale: essere gentili e aiutare il prossimo può risolversi in una serie di azioni appaganti ma prive di autentico riscontro allorquando, nel momento del bisogno si tratterebbe di venire ricambiati del favore. Meglio seguire la corrente, ci racconta il film, cercando di intrufolarsi negli spazi altrui lasciati distrattamente liberi e godersi nel miglior modo possibile la vita. Il Gianni con problemi di pressione arteriosa e gastroenterici per accumulo di frustrazioni dopo la cura psicologica del dottor Marco Messeri che lo invita a sgomitare con le cattive per conquistarsi i propri spazi, lascia subito il posto ad un uomo in perfetto salute e talmente soddisfatto di se stesso da conquistare addirittura il cuore di una donna più giovane. Cose che possono certamente accadere nell’universo filmico di Gianni Di Gregorio, il quale forse ambirebbe pure all’impostazione di qualche discorso con pretese sociologiche, trovando tuttavia solamente la strada per un decoroso intrattenimento. Senza comprendere a fondo che, da uno che avrebbe cosceneggiato Gomorra (2008) di Matteo Garrone, ci si aspetterebbe una maggiore propensione al rischio, un tentativo concreto di realizzare qualcosa di originale che possa veramente fornire di nuova linfa un genere in stato di coma profondo come la commedia all’italiana. Così com’è anche Buoni a nulla finisce invece con l’ammiccare sin troppo evidentemente ad un presunto pubblico di riferimento che presto o tardi si stancherà anche del cinema cristallizzato messo in scena da Di Gregorio.
Se il già menzionato Pranzo di Ferragosto poteva aver rappresentato all’epoca una salutare boccata d’aria fresca, il resto della filmografia di Di Gregorio corre il rischio di sembrare un’eterna coazione a ripetere, sia pure con toni in apparenza differenti tra loro. E non basta far finta di essere diventati birbantelli – magari anche orientando la macchina da presa sul generoso décolleté di Valentina Ludovini – per poter fregiarsi del prestigioso ma tuttora vacante titolo di nuovo autore nello scombiccherato panorama del cinema leggero nostrano. Se non ci prova nemmeno un regista ormai sessantacinquenne – che dovrebbe quindi aver acquisito una qualche libertà creativa – alla sua opera terza ad uscire dal gregge da chi altri dovremmo aspettarcelo?
Daniele De Angelis