Black Shaolin
Tra gli otto titoli selezionati nel concorso internazionale della quinta edizione di Visioni dal Mondo ben due riflettono e approfondiscono il complesso tema del neocolonialismo, ma seguendo con eguale efficacia traiettorie e approcci differenti. Se in Le Royaume la coppia francese formata da Laurent Reyes e Gabriel Laurent ci catapulta nel cuore della giungla birmana per documentare il tentativo di proselitismo religioso e indottrinamento di un un gruppo volontario di americani evangelici paramilitari battezzati Free Born Rangers ai danni di una minoranza etnica sotto assedio, in Buddha in Africa della collega Nicole Schafer ci accompagna per mano in un orfanotrofio buddhista fondato da un taiwanese dove i giovani ospiti locali vengono strappati alla povertà ed educati alla rigida disciplina del sistema di valori confuciano.
La sostanza dunque non cambia ed è la stessa con la quale Roger Ross Williams aveva condito il suo God Loves Uganda, semmai a cambiare sono gli approcci alla materia, l’area geografica di intervento e il punto di vista adottato dagli autori. Da una parte i cineasti transalpini scelgono di astenersi da qualsiasi giudizio mantenendo una posizione di neutralità passando la palla allo spettatore, al contrario la Schafer dice chiaramente la sua e lo fa attraverso un baricentro preciso su e intorno al quale si sviluppa la narrazione. Mentre Reyes e Laurent si limitano a documentare con piglio giornalistico e di denuncia le sordide pratiche di arricchimento ed espansione territoriale camuffate da evangelizzazione, dall’altra si assiste a una storia nella storia che seguendo parallelamente il percorso di formazione di un ospite del centro di assistenza cinese restituisce la misura di un intervento benefico ma a suo modo invasivo di allargamento dei confini culturali e territoriali di una super potenza come la Cina. In tal senso, tra le righe della timeline, chi più e chi meno, può leggere ben altro, allargando di fatto gli orizzonti tematici di Buddha in Africa al discorso legato alla macro-economia e alla politica internazionale.
Di fronte alla crescente influenza della Cina sul continente, la pellicola offre una visione unica delle forze del soft power culturale sull’identità e l’immaginazione di un ragazzo africano e dei suoi compagni di scuola che si dibattono tra due culture. La regista scandinava lavora a tutto campo e al contempo adotta uno sguardo interno che corrisponde a quello di un ospite dell’orfanotrofio di nome Enock Alu, un adolescente malawiano che si sente diviso tra le sue radici africane e l’educazione cinese. Il protagonista, che sogna di diventare un eroe delle arti marziali come Jet Li, è all’ultimo anno di scuola e deve prendere decisioni difficili sul suo futuro. Tornerà dai parenti nel suo villaggio natale o studierà all’estero a Taiwan? Alla visione l’ardua sentenza.
La Schafer da forma e sostanza a un ritratto che sa di romanzo di formazione, aprendo una finestra nella vita di un ragazzo come tanti. Ma ciò che ci ha più colpito del film è stata la capacità dell’autrice di raccontare una vicenda intima e intensa sullo sfondo di macro aree tematiche di stretta attualità, senza che queste prendano mai il sopravvento sulla linea diaristica. Il tutto restituendo sullo schermo con grandissima forza la lotta intestina combattuta sino all’ultimo nel cuore e nella mente di un protagonista schiacciato tra i mondi contrastanti della cultura tradizionale africana e la rigida disciplina del sistema buddhista dei cinesi.
Francesco Del Grosso