Il grido di libertà del teatro
Nel menu sempre molto ricco di Bergamo Film Meeting, festival giunto al 41° appuntamento dando sfoggio di notevolissime vitalità e qualità, uno spazio tradizionalmente importante è quello riservato alle retrospettive, alle personali, alle sezioni collaterali. Di particolare spessore è al solito la vetrina ribattezzata Europe, Now!. Anche perché ne sono ora protagonisti due cineasti che nelle ultime decadi hanno rappresentato, per il panorama del cinema europeo (e mondiale), un piccolo terremoto, una continua provocazione, sia sul piano estetico (a partire dai tratti insoliti che possono caratterizzare, a volte, lo spazio scenico e l’arco della narrazione) che in merito alle tematiche da loro esplorate: la svizzera Ursula Meier e il belga Jaco Van Dormael.
La prima scoperta rilevante ha riguardato proprio l’autore (oggetto talvolta di un intensissimo “odi et amo”, da parte del pubblico più cinefilo) di pellicole destinate a non passare mai inosservate, vedi il più datato Toto le héros – Un eroe di fine millennio (1991), oppure Mr. Nobody (2009) e Dio esiste e vive a Bruxelles (2015). Sostanzialmente fermo, per l’appunto, dal 2015, il regista belga era stato contattato poco prima che il Covid e – soprattutto – le restrizioni pianificate da parecchi stati sconvolgessero la vita di tutti, per interagire a livello audiovisivo con la rappresentazione teatrale di un classico, Madame Bovary di Gustave Flaubert, messa in cartellone dal responsabile artistico del Royal Flemish Teatre (KVS) di Bruxelles, quel Michael De Cock che ne aveva curato anche la produzione assieme a Carmine Portaceli. A quel punto, però, il lockdown e l’abbandono temporaneo dei teatri hanno bloccato tutto. Che fare?
Di comune accordo, Michael De Cock e lo stesso Jaco Van Dormael hanno pensato a un esperimento creativo, che non fosse soltanto il classico, stantio “teatro filmato”: cinque giorni di riprese, in quello storico spazio teatrale desolatamente vuoto, per ottenere una dissezione programmata e la successiva rianimazione dello spettacolo precedentemente annullato. Sospeso a tempo indeterminato, in circostanze peraltro tanto meste. Un po’, concedeteci questa piccola licenza, come se all’insofferenza e al grido di libertà del così archetipico personaggio di Flaubert si sovrapponesse alfine un altro grido di libertà, quello del pubblico e degli autori, confinati all’improvviso in una realtà decisamente più asfittica rispetto all’amata scena teatrale.
In tal modo è nato Bovary, un film-non-film la cui architettura diegetica parte proprio dall’abbandono del progetto originario, da quel triste resoconto pandemico che ha qui la platea desolatamente vuota del Royal Flemish Teatre quale epicentro, per ricostruire poi finanche con accuratezza filologica le vicende dei personaggi di Flaubert; tutto compiuto, però, attraverso uno “straniamento”, dovuto alla continua esibizione della finzione scenica, degli strumenti espressivi del cinema e del teatro. Nell’accompagnare con struggente partecipazione una simile operazione, davvero encomiabili i due attori protagonisti, Maaike Neuville e Koen De Sutter, ristettivamente nei panni di Emma Rouault e Charles Bovary; coinvolti anche loro del resto in situazioni estreme, tra tutte gli interminabili primi piani che sembrano isolare nello spazio e nel tempo i fatti raccontati nel romanzo.
Non meno sconvolgente, in merito alle aspettative dello spettatore, il momento in cui Maaike Neuville entra – letteralmente – nei panni di Emma Bovary, quella “vestizione” resa in una scena a metà tra il musical e il videoclip. Scene in auto realizzate con “trasparenti” d’altri tempi e da altro cinema, altri accorgimenti formali per cui il linguaggio teatrale e quello cinematografico si ibridano di continuo, liberamente, fanno sì che il testo di Flaubert si insinui ancor più in profondità, nella coscienza piacevolmente turbata del pubblico. Fino a inglobare un’ulteriore vertigine meta-teatrale, con la presenza sul palcoscenico della soprano Ana Naqe, osservata e commentata con toni diversi da Emma e Charles Bovary, relegati a quel punto in platea.
Stefano Coccia