Quando il legame di sangue non conta
Molto spesso c’è chi, nel corso della propria vita, si trova in un momento in cui è necessario lasciare il proprio lavoro, la propria casa e la propria famiglia per ritrovare se stessi. Una delle destinazioni più spirituali è sicuramente l’India, paese che di solito riesce ad influenzare molte persone. Poche, però, sono riuscite ad avere una esperienza intensa come quella di Rocky Braat, la cui storia è raccontata in Blood Brother. Il documentario diretto dall’esordiente Steve Hoover, ha vinto premi importanti: dal Premio della Giuria e il Premio del Pubblico a Sundance 2013 al premio di Miglior Regia ai Social Impact Media Awards di quest’anno.
Un giovane ragazzo americano, Rocky Braat, abbandonato il lavoro di grafico per intraprendere un viaggio spirituale in India, capisce ben presto che la sua missione andrà ben oltre. Dopo la visita ad un orfanotrofio per bambini affetti da HIV, decide di trasferirsi definitivamente in quel posto per aiutarli ad uscire dallo sconforto più totale e supplire in qualche modo all’assenza di amore e di cure. Quando Rocky invita il suo amico regista a documentare la sua esperienza, una troupe parte senza sapere che anche per loro si tratterà di una esperienza unica. Proprio la presenza dei membri della troupe in alcune sequenze non solo non reca disturbo ma anzi rappresenta un dettaglio importante: perché i sorrisi o le lacrime dei bambini fanno capire con chiarezza che la troupe dietro la macchina da presa ha costruito un rapporto di empatia molto profonda con loro. Empatia trasmessa appieno anche allo spettatore, che esce trasformato dopo la visione del film. Rocky è un ragazzo che non ha alcun timore di avere contatti con i bambini infettivi. Bambini che sono ben consapevoli delle loro condizioni mediche ma che allo stesso non perdono l’entusiasmo e la goliardia tipiche della loro età. La telecamera segue giorno dopo giorno Rocky e tutti gli ospiti dell’orfanotrofio. Ognuno di quei bambini ha una personalità diversa e nella disperazione della loro situazione c’è il conforto di chi con la sua presenza e il suo sacrificio può dare un sapore diverso alla loro vita. Il film di Hoover non è però un film “religioso”, ma anzi educa lo spettatore su certi luoghi comuni che spesso vengono mostrati dai media nella maniera sbagliata. Non c’è ombra di pietismo in questo film, bensì la consapevolezza che i piccoli (ma grandi) passi di una persona comune possono fare la differenza.
Una delle scene più forti e difficili da guardare è sicuramente quella in cui Rocky decide di curare lui stesso Surya, uno dei bambini in fin di vita. Il passaggio di un treno in corsa non permette loro di raggiungere l’ospedale in tempo. La paura negli occhi di Rocky, la sua pazienza e l’attenzione nel curare le piaghe e le cicatrici del bambino sono troppo intense anche per uno spettatore abituato al genere horror. La macchina da presa cattura forse per troppo tempo alcuni momenti strazianti, ma proprio quelle immagini amplificano l’importanza della missione di Rocky e il suo amore incondizionato per quello che ha scelto di fare. Quando in questo periodo siamo bombardati, soprattutto sui social media, dalle immagini di bambini sofferenti provenienti da Gaza, Blood Brother ci ricorda che le proprie immagini non vogliono puntare il dito contro nessuno, ma semplicemente mostrarci la presenza della sofferenza in questo nostro mondo e l’importanza dell’empatia verso chi purtroppo si trova in tali condizioni di malattia. Per far capire quali potrebbero essere I mezzi per alleviare tali dolori.
Un aspetto forse non troppo sviluppato nel documentario è la vita personale di Rocky, che ha tanto affetto da dare ai bambini dell’orfanotrofio ma che non menziona quasi mai la sua famiglia se non per raccontare del rapporto difficile con il padre e i suoi patrigni, dai quali ha subito degli abusi. Allo stesso tempo lui stesso rappresenta una figura paterna per quei bambini, e questo senso di responsabilità viene ulteriormente evidenziato quando Rocky decide di sposarsi con una ragazza indiana del posto. Forse le scene del matrimonio spiazzano lo spettatore perché Rocky si mostra freddo e quasi distaccato, ma evidenziano la completa integrazione del ragazzo nella cultura indiana, al fine non essere visto come il solito bianco che fa carità andando nei paesi sottosviluppati.
L’unica pecca del documentario risiede forse nel montaggio, spesso dai ritmi di un music video; ma l’aspetto narrativo ne esce in qualche maniera rafforzato per una certa urgenza di mostrare e, allo stesso tempo, forzare lo spettatore a non avere paura di certe immagini. Di sicuro il film pone tante domande, molte delle quali non trovano una immediata risposta, ma che sicuramente stimolano una forte e urgente discussione riguardo l’efficienza e la trasparenza del lavoro di molte ONG e delle loro missioni in paesi del Terzo Mondo. E come si sa, soprattutto nel genere documentaristico, dove i budget spesso e volentieri non permettono di avere una distribuzione assicurata nei cinema, sono di fondamentale importanza i festival che, oltre a dare spazio a registi alla loro prima opera, come il caso di Hoover, non hanno paura di portare sui loro schermi degli argomenti così forti.
Vanessa Crocini