Sole ingannatore
Tra i lungometraggi in concorso all’ultima edizione di Science + Fiction, Blind Sun è uno di quelli che hanno maggiormente spiazzato il pubblico, irritando gli uni e lasciando feconde suggestioni in altri. Quello realizzato in Grecia da Joyce A.Nashawati, giovane cineasta cresciuta tra Beirut, Accra, il Kuwait e Atene, è in ogni caso un oggetto filmico enigmatico, conturbante, fluido e magmatico nonostante le riprese così calcolate e studiate. In ciò ha finito inevitabilmente per affascinarci, ben al di là dei limiti e degli scompensi di una sceneggiatura che, in più di un momento, sembra scricchiolare paurosamente.
Per comprendere meglio gli elementi di fascino che tale operazione rivela, bisogna forse riflettere sulle rare volte in cui la settima arte ha collegato direttamente la luce solare alle nostre più profonde inquietudini, ai riflessi di società crepuscolari, alle stesse zone d’ombra presenti nell’animo umano. Senza scavare troppo in profondità (per oggettivi limiti di spazio), nella piccola e alternativa storia del cinema che ne può derivare, comincia a scorgersi in lontananza un percorso che va da Vampyr, capolavoro di Carl Theodor Dreyer in cui il senso del macabro si sprigiona anche alla luce del sole, fino a sporadici episodi presenti nel panorama contemporaneo, come ad esempio Il metodo Orfeo di Filippo Sozzi, horror indipendente italiano ambientato in una assolata Isola d’Elba.
Senza su questo dilungarci oltre, Blind Sun scavalca qualsiasi distinzione di genere e assorbe tentazioni autoriali per raccontare la paranoia di un uomo, immigrato, assunto per sorvegliare una grande villa in quella Grecia dell’immediato futuro, che si immagina ancor più in stato d’assedio e sull’orlo di un collasso sociale dagli esiti imprevedibili. Onnipresenti controlli polizieschi. Corruzione. Fermenti di rivolta. Acqua costantemente razionata. Famiglie straniere agiate che sembrano antichi feudatari arroccati nelle loro fortezze. Enormi ville con piscine la cui acqua assume ben presto un valore metaforico, emblematico di quei privilegi ormai in bilico. E poi ombre che si aggirano furtive nella grande casa, giochi di presenze/assenze, strani accadimenti che scuotono sempre di più la mente già turbata del protagonista.
Senza dubbio Joyce A.Nashawati per il suo lungometraggio d’esordio ha infilato molta carne al fuoco. Forse troppa. E difatti in certi momenti lo script si perde tra ridondanze, simbolismi un po’ fini a se stessi, sviluppi narrativi poco omogenei. Ma c’è anche del talento. A partire da quelle riprese all’interno della villa che giocano con una certa personalità a parafrasare l’abusato tema della home invasion, inserendovi piccole e raffinate note stranianti. Fino a produrre una visione fosca del futuro (e della cangiante precarietà del presente, di riflesso), capace comunque di generare qualche brivido oscuro.
E a suggellare dal punto di vista formale il valore di un’opera, in cui la dialettica ombra/luce assume un ruolo sostanziale, va assolutamente segnalata la proficua collaborazione con Yorgos Arvanitis, probabilmente il più grande direttore della fotografia ellenico, che in Grecia (oltre che nelle altrettanto rilevanti presenze su set internazionali) ha sempre saputo evidenziare il suo tocco, sia nelle produzioni più commerciali, che per gli importantissimi film diretti dal maestro Angelopoulos.
Stefano Coccia