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Blaze

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Benjamin Dickey and Alia Shawkat appear in BLAZE, an official selection of the U.S. Dramatic Competition at the 2018 Sundance Film Festival. Courtesy of Sundance Institute | photo by Steve Cosens.
VOTO: 7

Il valore dello zero

Per gran parte degli attori o delle attrice in circolazione il passaggio dietro la macchina da presa sembra essere diventato uno step obbligatorio ai fini del rispettivo percorso professionale. Per altri, invece, la o le esperienze da regista sembrano il frutto di una vera e propria necessità personale, che ha portato i diretti interessati a uscire di scena, quanto basta da mettersi da parte e al completo servizio di una storia e dei suoi personaggi. È il caso del quattro volte candidato all’Oscar Ethan Hawke, che a dodici anni da L’amore giovane e a diciassette dall’esordio con Chelsea Walls, ha deciso di tornare alla regia. E per farlo ha scelto di raccontare una storia ai tanti sconosciuta ma non a lui che gli ha voluto dedicare un film dal titolo Blaze, come il nome d’arte del suo protagonista, ossia Michael David Fuller. Una storia, quella dell’oscuro e leggendario cantautore country texano che è stato un riferimento per molti talenti come Merle Haggard e Willie Nelson, che l’attore statunitense conosce perché per gran parte si è consumata non lontano da dove è nato, vale a dire ad Austin in Texas.

La pellicola, presentata nella sezione “Festa Mobile” della 36esima edizione del Torino Film Festival dopo le proiezioni al Sundance e a Locarno 2018, è infatti ispirata alla vita di Blaze Foley, da prima raccontata nelle memorie “Living in the Woods in a Tree: Remembering Blaze Foley” di Sybil Rosen, attrice di origini ebree che è stato il grande amore della vita del musicista e cantante americano. Ed è da lì che Hawke e la stessa autrice hanno attinto a piene mani per portare sullo schermo tormenti ed estasi di un’esistenza senza glorie, finita purtroppo nel dimenticatoio. Merito, dunque, l’averla riportata alla luce con una biografia parziale che prende il via appena prima dell’inizio della relazione tra la Rosen e Foley per concludersi appena dopo il colpo di pistola che fece calare il sipario l’1 febbraio del 1989. Con e attraverso di essa sarà, quindi, possibile scoprirla e riviverne gli highlights.
L’architettura narrativa del film asseconda in tutto e per tutto la matrice originale che l’ha generata, con tre differenti piani temporali che si intrecciano per ricostruire il passato, il presente e il futuro. Le differenti narrazioni indagano la sua storia d’amore con Sybil Rosen; la sua ultima e tragica notte; e l’influenza che le sue canzoni e la sua morte hanno esercitato su ammiratori, amici e nemici. La frammentazione crea le basi di una narrazione non lineare di grande efficacia che acquista la forma di un mosaico nel quale i frammenti amorosi e di vita vissuta vanno di volta in volta a collocarsi. Peccato solo per la lunghezza di una timeline che si spinge, quando avrebbe tranquillamente potuto farne a meno, oltre la soglia cronometrica delle due ore, con una serie di digressioni di troppo, futili parentesi e situazioni fotocopia, che finiscono con il dilatarla eccessivamente. Un peccato di gola, questo, che si ripercuote sulla scorrevolezza del racconto.

Ciononostante Blaze è una commovente e intensa ballata country, nella quale le note della chitarra e i testi di Foley rappresentano il cuore pulsante del film. Un cuore che viene alimentato anche dalle performance attoriali di Benjamin Dickey (Blaze Foley) e Alia Shawkat (Sybil), con il primo in particolare bravissimo a restituire sullo schermo tanto il talento quanto il “magma” incandescente di paure, fragilità, frustrazioni e insicurezze che albergavano nell’esistenza di un uomo immolatosi sull’altare dell’autodistruzione, schiavo dell’alcool, delle droghe e dei fantasmi che non lo hanno mai abbandonato.

Francesco Del Grosso

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