La maledizione della strega colpisce ancora
1999. Diciassette anni orsono – e sembra davvero una vita fa – un’abilissima operazione di marketing “sconvolse” il mondo del cinema. Il suo nome in codice, coincidente con il titolo del film, era The Blair Witch Project. (Auto)spacciatosi per il primo film-verità in point of view/found footage, sottogeneri che in seguito avrebbero partorito autentici orrori senza orrore, sfruttò come meglio non si poteva una graduale campagna sul web – che allora muoveva i primi passi verso una globalità assoluta – capace di spacciare per autentico ciò che, ovviamente, non lo era affatto. L’attesa divenne spasmodica e così il filmetto a budget irrisorio divenne quando uscì un fenomeno economico da ammirare ed imitare. Sulla qualità del lungometraggio (non troppo lungo, a dire il vero…) firmato da tali Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez, due giovani carneadi rientrati dopo pochi anni dall’exploit nell’anonimato cinematografico pressoché assoluto, la critica e non solo espresse assai più di qualche riserva. Messa comunque da parte dalla spaventosa – quella sì – equazione tra costo e ricavi.
Anno 2016. Un po’ alla chetichella, visto che ormai la platea di navigatori internettiani si è non solo ampliata ma è divenuta anche decisamente smaliziata, viene annunciata l’uscita del sequel. Il nome del regista stuzzica la curiosità dei cinefili. Si tratta di Adam Wingard, classe 1982 messosi in luce, almeno tra gli spettatori italiani, con l’ironico slasher You’re Next (2011) e l’interessante, iper-violento B movie The Guest (2014). Tutto ok dunque, ma solo in teoria. Perché il film, intitolato semplicemente Blair Witch, da sequel nelle premesse narrative – uno dei personaggi organizza una nuova spedizione nella foresta di Black Hills nel Maryland, alla ricerca della sorella scomparsa nel corso dell’opera primigenia – diventa presto vero e proprio remake filologico, appiattendosi di conseguenza sulle medesime carenze dell’originale. Cioè la speranza di generare paura attraverso il caos visivo, senza in pratica mostrare mai nulla di realmente terrorizzante.
E dire che l’intuizione di moltiplicare i media tecnologici che vanno a comporre in sostanza le immagini del film avrebbe potuto dare il via ad un discorso di portata di sicuro maggiormente teorica. Perché in Blair Witch ognuno dei personaggi è in sostanza munito di un apparecchio in grado di riprendere, tra l’altro in alta qualità d’immagine. Ma non di prevenire il pericolo. Come ad affermare che la tecnologia non potrà salvare nessuno dallo scatenarsi delle forze oscure, che puntualmente si faranno di nuovo vive. Ed è in quel preciso momento diegetico, dopo una fase preparatoria in verità abbastanza riuscita, che Blair Witch fallisce l’obiettivo prefissato, non prendendo le debite distanze dalla mediocrità intrinseca del prototipo e non trasformando il sequel in qualcosa di profondamente differente, consapevole di avere una vita propria nell’ambito di un genere in cui funziona ormai egregiamente solamente quella dissacrante trasversalità tra passato e presente di cui proprio Wingard aveva dimostrato di poter essere alfiere. Blair Witch sarebbe potuto diventare molte altre cose. In primis un compendio di tanto cinema horror, con una rivisitazione, ad esempio, de La casa di raimiana memoria a portata di mano, specie nel convulso finale. Al contrario il film si adagia sui binari, a questo punto risaputi, di The Blair Witch Project: coincidenza tra sguardo dei personaggi e spettatoriale nell’impossibilità di individuare con chiarezza l’elemento scatenante del terrore a causa del profluvio confuso di immagini e nemmeno la stimolazione voyeuristica di osservarne le conseguenze. Assenza in pratica totale di sangue – tranne una sequenza assolutamente gratuita nel contesto in cui dalla ferita della ragazza di colore fuoriesce una sorta di verme di non indifferenti dimensioni – e nessun tipo di empatia nei confronti di personaggi sommariamente descritti, destinati già dalle primissime sequenze a finire nelle metaforiche fauci di una strega senza volto.
Ancora una volta, al pari del predecessore, Blair Witch diventa dunque cinema della negazione della visione – sia pur in bella confezione – senza mai scatenare quell’immaginazione nello spettatore che dovrebbe occupare tale vuoto. E perciò suscitare genuina paura.
Con disappunto abbastanza evidente si può quindi affermare che, oltre ai vari protagonisti, nel bosco della strega si sono smarriti pure Adam Wingard e il fido sceneggiatore Simon Barrett. Sperando che tale atteggiamento supino gli serva da lezione in futuro e magari distolga i produttori – tra i quali figurano pure i due registi dell’originale – dall’intenzione di girare un terzo, nefasto, capitolo…
Daniele De Angelis