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BlacKkKlansman

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VOTO: 6.5

America First

Presentata al Festival di Cannes 2018, in Concorso, l’ultima opera di Spike Lee, BlacKkKlansman con la quale torna, o vorrebbe tornare, a quel cinema arrabbiato delle sue origini, chiamato in tal senso dalla necessità di mobilitarsi contro Trump, dipingendo un paese che si incarna in quella bandiera americana finale che si tinge di nero. Si tratta della storia esemplare di Ron Stallworth, il primo ufficiale afroamericano del dipartimento di polizia di Colorado Springs, che riusci a infiltrare un collega nel Ku Klux Klan riuscendo a sventarne i piani razzisti. Spike Lee sceglie quell’America degli anni Settanta, delle grandi battaglie per i diritti civili, per parlare dell’oggi, ricordandoci anche i nemici, i villain, che sono stati sconfitti. Nixon, di cui compare spesso nel film l’effige sui manifesti della campagna elettorale del 1972, come auspicabilmente Trump. Un film che vorrebbe essere uno scossone per richiamare l’America a svegliarsi e a tornare a quell’epoca di impegno civile. E così anche il riprendere l’idea del finale del più ‘angry’ Spike Lee, quello di Fa’ la cosa giusta e di Malcom X, un finale che si raccordi con la realtà, che esce dalla finzione per affondare a piene mani nel pantano della cronaca americana più retriva del razzismo e del classismo, con filmati di cronaca, omaggi e citazioni, che in questo caso riguardano gli atroci fatti del corteo di Charlottesville con le successive dichiarazioni aberranti di Trump.

Ma già il parallelismo tra i due presidenti reazionari appare troppo esplicito, didascalico e telefonato. Le citazioni testuali di Trump, delle sue espressioni più retrive e razziste, messe in bocca ai membri del Ku Klux Klan, fino quell’espressione frequente, “America first” così cara all’attuale presidente, possono tuttalpiù essere mosse dalla necessità di rivolgersi a un pubblico di non alta estrazione culturale come può essere l’americano medio. Non c’è più però quello Spike Lee sporco, ruvido, disturbante, anche nello stile, che portava nel suo cinema quelle tensioni sociali che incrinavano l’America di George Bush, che entrava prepotentemente nella coscienza dello spettatore. Spike Lee è passato per grandi e importanti film, di produzioni più che solide, come S.O.S. Summer of Sam, La 25ª ora. Lo Spike Lee di “Fight the Power” è diventato a sua volta parte del “power” hollywoodiano e, viene da chiedersi, che non ci sia anche una responsabilità degli intellettuali come lui, che hanno abbassato la guardia, nel fenomeno Trump. E il facile manicheismo che scade in burletta, non giova certo alla pur sacrosanta causa di questo film. I membri del Ku Klux Klan sono spesso personaggi caricaturali, impacciati, ciccioni come la moglie di David Duke che sembra dipinta da Botero, che nel finale non riesce mai a mettere la dinamite dove vorrebbe, nelle cassette della posta per esempio, perché non ci entra. Così come nel tratteggiare i membri del Ku Klux Klan anche come antisemiti, ce l’hanno con quegli ebrei che “hanno ucciso Gesù“. Ce le hanno tutte, insomma, mentre il loro inno recita :”God Bless White America“.
Porta un nido di capelli lunghi ricci Ron Stallworth, che pure il suo capo nella polizia incita a non tagliare. Il che ci riporta dritti a quell’epoca, agli anni Settanta importantissimi nella storia della cultura afroamericana, dove invece dei moderni cellulari per riprendere, si usava l’istantanea polaroid. L’epoca del movimento delle Pantere Nere, della blaxploitation che Spike Lee cita nelle scene dei film con Pam Grier, ma anche lo stesso titolo del film, BlacKkKlansman, richiama quel genere cinematografico. La sovrastruttura cinematografica del film appare la cosa più interessante. Un film che si apre con Via col vento, anche nel suo diverso formato che poi si allarga uscendo dalla citazione, che ci riporta, insieme a La nascita di una nazione che si vede invece proiettato, alla guerra di secessione e al fatto che ancora gli Stati Confederati abbiano lasciato un segno. Spike Lee conosce la storia del cinema e vuole farne parte, si pensi alle battute sulla “città nuda” all’inizio di S.O.S. Summer of Sam per rifarsi al genere noir. E in un film che cita Griffith ci regala una magnifica scena di montaggio alternato, che vede da una parte l’anziano attivista Jerome Turner, interpretato dal cantante Harry Belafonte, rievocare un episodio di linciaggio con l’ausilio di raffigurazioni, e dall’altra parte la cerimonia d’iniziazione del Ku Klux Klan. Un guizzo di alta regia per un cineasta che sente il bisogno di tornare all’impegno civile. Qualunque sia il risultato, Spike Lee è comunque vivo e lotta con noi.

Giampiero Raganelli

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