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Big Eyes

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VOTO: 5

A me gli occhi

Tra gli anni cinquanta e sessanta il mercato dell’arte internazionale venne letteralmente sconvolto dall’inaspettato e travolgente successo di Walter Keane, pittore statunitense diventato celebre grazie a riconoscibilissimi ritratti di bambini dagli occhi grandissimi. Un segreto però si nascondeva dietro a quelle opere osteggiate dalla critica ma tanto apprezzate dal pubblico: a realizzarle non era infatti Keane, bensì sua moglie Margaret.
Tim Burton torna al cinema con un’incredibile storia vera, quella di uno dei più clamorosi casi di frode artistica della storia recente e lo fa cercando di raccontare i meccanismi che portarono una placida casalinga americana dapprima ad accettare il giogo di un marito malato di protagonismo e poi a rivendicare la maternità delle sue opere, trascinando la sua verità nelle aule di tribunale.
L’immaginario di Burton – nella più completa definizione di “artista visuale” – è stato manifestamente e dichiaratamente influenzato dalla fascinazione per i lavori della Keane: non stupisce quindi che Big Eyes nasca come progetto dal carattere marcatamente “personale” e che il dato cronachistico degli eventi passi presto in secondo piano nell’economia del film, che al contrario sposta l’accento sui tratti più emotivi ed empatici del racconto.
Burton finisce per ricavare un ritratto che prescinde in parte i confini della vicenda dei Keane, addentrandosi in una riflessione dal maggiore respiro che fa leva in primis sulla contestualizzazione temporale degli eventi: Big Eyes infatti cerca di dare vita a uno schematico affresco storico ricostruito sulla base di cifre stilistiche e iconografiche che giocano sul filo della forzatura e dell’iperbole ma che contribuiscono tuttavia alla completezza del quadro narrativo. Burton si immerge negli anni che precedettero la vera e propria emancipazione femminile, analizzandone le geometrie e le conseguenti ripercussioni nell’evoluzione dei rapporti uomo/donna (“Dopo tanti anni Margaret dice ancora che senza Walter nessuno avrebbe scoperto la sua arte. Continua ad attribuirgli buona parte del merito” ricordano i due sceneggiatori Scott Alexander e Larry Karaszewki) e lo fa seguendo il percorso di una donna in bilico fra coraggio e fragilità, perennemente in cerca di una guida e di un supporto, facilmente manipolabile eppure capace di reinventare di volta in volta la propria vita.
Il “testa a testa” fra i coniugi Keane rappresenta senz’altro il pilastro centrale dello sviluppo della storia, tuttavia il progetto di Burton si spinge al di là delle vicissitudini para-domestiche dei protagonisti, scegliendo di dedicarsi a un’analisi comportamentale che prescinde il rapporto di coppia e che punta i riflettori sull’universalità della brama di successo, sulla forsennata corsa all’affermazione personale: il fastidio per il rigetto della critica va di pari passo alla costante ricerca di ulteriori riconoscimenti e popolarità, mentre si fa sempre più forte il desiderio di monetizzare sulla fidelizzazione del pubblico, cui consegue da un lato la smania di assecondare il mercato e dall’altro l’inevitabile snaturamento dell’idea stessa di produzione artistica, incapsulata in una forsennata catena di montaggio.
Tuttavia malgrado le pregevoli premesse Burton non sembra riuscire a ritrovare lo smalto di un tempo e ancora una volta finisce per arrotolarsi in un progetto formalmente corretto eppure davvero poco incisivo. Non eccessivamente avvincente malgrado l’indubbia peculiarità della storia, il film dovrebbe trarre linfa vitale dall’apporto dei due attori protagonisti eppure anche in questo caso Big Eyes non pare trovare il giusto slancio: Christoph Waltz sfrutta al massimo la sua dote di istrione ma si impantana in una deriva bizzarra e un po’ troppo caricaturale del suo personaggio, mentre Amy Adams fatica a conferire spessore all’insicura e d’improvviso combattiva Margaret.
Ne viene fuori un progetto tiepido, che mal gestisce anche i rari tentativi di giocare con l’ironia e il surrealismo: occasione sprecata.

Priscilla Caporro

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