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Bersagli (Targets)

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VOTO: 7

I mostri siamo noi

Scomparso lo scorso 6 gennaio, il regista Peter Bogdanovich è stato uno tra i più significativi esponenti del cinema indipendente americano, un autore controcorrente che partendo da produzioni a basso budget è stato in grado di ritagliarsi un ruolo di spicco nella New Hollywood – e non solo come regista, ma anche come critico cinematografico, sceneggiatore e attore. Non sappiamo se sia stato un caso o una precisa scelta, ma la distribuzione italiana A & R Productions ha pubblicato il mese scorso una buona edizione in dvd di Bersagli (Targets, 1968), il secondo film del regista e il primo firmato col proprio nome, un’opera seminale in cui compaiono già in nuce elementi narrativi e stilistici tipici della sua poetica cinematografica. Anche se probabilmente involontario, è stato decisamente un bel modo di rendergli omaggio, con un film importante e originale proprio perché non è tra i suoi celebrati, come saranno invece i successivi L’ultimo spettacolo, Ma papà ti manda sola? e Paper Moon (solo per citarne alcuni tra i più famosi).
Bogdanovich fa parte di quella generazione di registi indipendenti che si sono fatti le ossa da soli, studiando il cinema e imparando il mestiere sul campo, un gruppo di cineasti autonomi e borderline dove troviamo nomi come Monte Hellman e John Cassavetes, tutti autori che hanno contribuito in maniera decisiva alla trasformazione del cinema americano. Un sistema cinematografico dove anche gli indipendenti rivestono un ruolo di spessore (pensiamo, in anni più recenti, a registi come Jim Jarmusch e Gus Van Sant), non come in Italia, e che hanno saputo rivestire un ruolo significativo nella controcultura della Nuova Hollywood accanto a registi più conosciuti come Coppola, De Palma e Scorsese – a loro volta, provenienti da un sistema inizialmente low-budget.
Estimatore della Nouvelle Vague e del cinema classico americano (nel 1971, dedicò un documentario a John Ford), cultore di teatro, arti figurative e critica cinematografica, esordì come regista dopo una lunga gavetta nel 1967 con il film fantascientifico Voyage to the Planet of Prehistoric Women, firmato con lo pseudonimo di Derek Thomas. Ma il primo film pienamente suo, prodotto e scritto da lui e diretto col proprio nome, fu appunto Bersagli, di cui firmò il soggetto insieme a Polly Platt (all’epoca sua moglie) e la sceneggiatura insieme a Samuel Fuller, un gigante del cinema americano che fu a sua volta un grande innovatore fra gli anni Quaranta e gli anni Ottanta. In Targets convivono due storie, montate dallo stesso Bogdanovich in sequenze alternate e giustapposte, destinate poi a convergere nel concitato finale. Da una parte, c’è la vicenda di Byron Orlok (Boris Karloff), un vecchio attore cinematografico di film horror deciso a ritirarsi dalle scene, in contrasto con i produttori che vorrebbero fargli girare un altro film. Dall’altra, c’è quella di Bobby Thompson (Tim O’Kelly), un giovane appartenente alla classe media americana, sposato e impiegato presso una compagnia di assicurazioni, che vive insieme ai genitori e alla moglie. Sotto un’apparente quiete, il ragazzo cova una rabbiosa follia e colleziona armi: una mattina, senza nessun motivo scatenante, uccide a colpi di pistola la moglie, la madre e il garzone che si trovava casualmente in casa. Armato con un fucile di precisione, sale poi in cima a un gasometro e fa il tiro al bersaglio sulle auto, uccidendo chiunque gli capiti a tiro. Infine, si apposta dietro lo schermo di un drive-in, dove ricomincia a sparare e a uccidere. Sarà proprio Orlok, ospite d’onore in quanto interprete del film proiettato, a disarmare il ragazzo.
Bersagli è un film profondamente cinefilo (una marca distintiva della filmografia di Bogdanovich), a cominciare dal personaggio interpretato da Boris Karloff e dall’omaggio che Bogdanovich fa a Roger Corman, un regista con cui il Nostro strinse un sodalizio artistico negli anni Sessanta, e che qua ha il ruolo di produttore esecutivo. Il film si apre e si chiude infatti con immagini di repertorio tratte da La vergine di cera (The Terror), un horror gotico diretto nel 1963 da Corman, dove è protagonista appunto Boris Karloff, un attore di cui il Byron Orlok del film è un alter ego abbastanza palese, a cominciare dal nome (anzi, nell’immaginario della vicenda potrebbe essere addirittura lo stesso Karloff sotto pseudonimo). Corman è un altro esponente del cinema indipendente americano, in grado di realizzare film horror (ma non solo) a basso costo – celebri sono ad esempio le sue raffinate trasposizioni dai racconti di Edgar Allan Poe – ma che, forse proprio per il genere affrontato, non ha avuto importanti riconoscimenti dalla critica come Bogdanovich. Il quale però ne riconosce l’importanza, tanto da costruire buona parte di Bersagli attorno alla figura di Boris Karloff, una leggenda del cinema horror americano e internazionale, che qui – proprio come il Byron Orlok della vicenda – è ormai sul viale del tramonto. La gigantesca presenza di Karloff è un atto d’amore cinefilo e meta-cinematografico (e lo stesso cognome Orlok può essere una citazione dal Nosferatu di Murnau), ma non solo: Bogdanovich cita infatti, per mezzo delle parole del protagonista, mostri sacri del grande schermo quali Greta Garbo e i Fratelli Marx, oppure ci fa vedere una sequenza tratta da Codice penale di Howard Hawks (dove Karloff/Orlok è ancora protagonista), per poi ambientare il lungo finale in un drive-in, la sala cinematografica all’aperto che tanta importanza ha avuto e continua ad avere nella cultura americana. Dunque, anche in Bersagli, come sarà ne L’ultimo spettacolo (dove la sala cinematografica destinata alla chiusura proietta Il fiume rosso di Howard Hawks), il cinema – inteso proprio come luogo fisico – assurge a importanza primaria e nostalgica, con un insistito carattere meta-cinematografico. Le citazioni e gli omaggi non sono fini a loro stessi, ma fungono da espressione di un evidente amore verso la Settima Arte, e la vicenda di Byron Orlok non è per niente banale, perché rivela un’immagine al vetriolo del cinema americano: il quale, se da una parte viene venerato con nostalgia, dall’altra viene però anche ritratto nei suoi aspetti più impietosi e crepuscolari, per esempio nei contrasti fra attori, produttori e registi. Bogdanovich si inserisce un po’ in quel filone ben frequentato da un regista rivoluzionario come Robert Aldrich, che in film quali Il grande coltello e Quando muore una stella mette in scena gli aspetti più meschini del mondo apparentemente dorato di Hollywood, così come fece anche Billy Wilder con Viale del tramonto. Orlok si definisce ormai un “dinosauro”, una creatura in via d’estinzione, un attore che ha avuto anni di gloria e che ora è consapevole del proprio declino, in opposizione ai produttori che vorrebbero continuare a sfruttare all’infinito il suo successo per produrre nuovi film, e che accetta solo per sfinimento di presenziare alla proiezione del suo film al drive-in. Karloff – che conserva il suo grande carisma e in certe scene recita volutamente sé stesso, vedasi l’inquietante racconto sul mercante e la Morte – è protagonista di continui e talvolta ironici battibecchi con i suoi produttori, con la segretaria e con il giovane regista (interpretato dallo stesso Bogdanovich), che lo spinge invano a fargli leggere il suo nuovo copione, in una serie di scene che rivelano la futura attitudine di Bogdanovich per la commedia. È una messa in scena sempre ambivalente, sospesa fra il dichiarato amore per il cinema e la presa di consapevolezza che l’epoca classica si sta ormai concludendo, così come la sala de L’ultimo spettacolo sta per chiudere i battenti: di questo bisogna rendersene conto, per aprire una nuova epoca dove i “dinosauri” come Orlok non trovano purtroppo (ma inevitabilmente) più spazio.
Se da una parte c’è il mondo fintamente dorato del cinema e i “mostri” di celluloide come quelli interpretati da Karloff/Orlok, dall’altra c’è invece il grigio e anonimo universo della provincia americana dove nascono i veri mostri, quelli che uccidono nella realtà. A fare da trait-d-union fra i due mondi, c’è una scena in cui Karloff e Bogdanovich leggono su un giornale una strage compiuta da un uomo armato, e riflettono sul fatto che siano queste cose a far paura, non i film horror: il che è destinato a ripetersi nella diegesi di Bersagli, ma soprattutto nella tragica realtà di ieri e di oggi, nei frequenti fatti di cronaca nera che leggiamo spesso sui quotidiani o vediamo nei telegiornali, quando qualcuno impugna una pistola o un fucile e fa una strage. Alla base del film di Bogdanovich potrebbe esserci un fatto storico avvenuto ad Austin, in Texas, nel 1966, quando il reduce del Vietnam Charles Withman salì su una torre dell’università con un fucile di precisione e uccise sedici persone – un tragico evento che ha forse ispirato anche thriller come Panico nello stadio e Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!. Ma al di là dei possibili riferimenti storici, Bersagli è sicuramente un film che attinge di prepotenza dalla realtà americana, dalle sue storture e dai mostri che essa partorisce. Bobby Thompson – impersonato magnificamente dal carneade Tim O’Kelly, interprete di varie serie televisive, col suo bel volto apparentemente quieto e impassibile – è un perfetto esponente della middle class americana, quella classe media messa in scena più volte nel cinema americano e dallo stesso Bogdanovich nei suoi film successivi. Una piccola borghesia che vive in case tutte uguali, conduce una vita omologata fra il matrimonio e un grigio lavoro come assicuratore, e si ritrova alla sera per guardare la televisione, facendosi bombardare di pubblicità, in un mondo tanto normale da risultare paradossalmente inquietante e claustrofobico. Uno stile di vita non molto distante dal Taxi Driver di Martin Scorsese o dalla metaforica messa in scena sci-fi di John Carpenter in Essi vivono, dove la società dei consumi ti obbliga a obbedire e a conformarti senza accorgertene. E, proprio come il Travis Bickle scorsesiano (seppure in un contesto diverso), anche Bobby Thompson – che insieme a suo padre, da buon americano, coltiva l’hobby delle armi – finisce per sbroccare e inizia a uccidere. La sua è una follia che cova poco alla volta – messa in scena da una regia minimalista e asciutta, praticamente senza colonna sonora se non quella diegetica delle radio o del cinema proiettato, e con la fotografia pulita e abbastanza neutra di Laszlo Kovacs (quello di Easy Rider), futuro collaboratore fisso di Bogdanovich: una pazzia che nasce e monta silenziosa, e che possiamo intuire da piccoli particolari come l’attenzione ossessiva e feticista per pistole e fucili, che il ragazzo colleziona scrupolosamente, e che ci fa capire che presto o tardi accadrà qualcosa di sanguinario. La tensione di Bersagli è palpabile, seppure per buona parte del film non accada niente (e tutto è propedeutico al deflagrare della follia), e anche gli omicidi sono messi in scena in modo anti-spettacolare, senza enfasi né musica, nella semplice e sconvolgente brutalità dei fatti: prima gli omicidi in famiglia con la pistola, poi la strage compiuta in cima al gasometro col fucile di precisione, dove Thompson sembra volersi sostituire al fato scegliendo casualmente le proprie vittime (inquadrate dalla regia tramite la soggettiva del mirino), infine il massacro al drive-in. Ecco, proprio in questo momento, le due storie – che fino ad allora sono montate parallelamente e in alternanza, giustapposte in modo paratattico – finiscono per coincidere in un climax di tensione dove le immagini del grande schermo si alternano alla realtà, con l’intervento provvidenziale di Orlok che disarma il ragazzo: una lunga sequenza con un montaggio d’antologia, dove il meta-cinema si prende tutta la scena, priva però ancora di ogni impatto spettacolare.

Davide Comotti

Bersagli (Targets)
Regia: Peter Bogdanovich
Durata: 90′  Cast: Boris Karloff, Tim O’Kelly
Audio: Italiano mono 2.0, Inglese mono 2.0
Sottotitoli: Italiano, Italiano forced per scene in linga originale
Video: 16:9 – 2.35:1 Extra: galleria fotografica, trailer, poster
Distribuzione: A & R Productions

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