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Beautiful Beings

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VOTO: 8,5

Piccoli Vichinghi crescono

Questa volta pare che il Trieste Film Festival abbia proprio “perso la bussola”!
Non in senso negativo, ma semplicemente perché si è ritrovato (e ci ha conseguentemente condotto) a latitudini inedite, e finanche estreme, rispetto alle rotte abituali della kermesse cinematografica triestina. Qui usualmente non ci si dedica alle cinematografie nordeuropee e tantomeno a quella islandese. Ma la macchina organizzativa di Alpe Adria è cresciuta parecchio in questi anni, portandosi dietro nuove sinergie, nuove partnership, per lui l’evento speciale legato alla proiezione di Beautiful Beings (Berdreymi, 2022) dell’islandese Guðmundur Arnar Guðmundsson deve essere ricollegato al MIOB New Vision Award 2023 e al suo legame con Trieste. Comunque a caval donato non si guarda in bocca. Ed è davvero un bel destriero, quello che gli spettatori del Cinema Ambasciatori hanno potuto cavalcare, la mattina di giovedì 25 gennaio…

Fuor di metafora, Beautiful Beings è sbarcato qui forte di un curriculum festivaliero di tutto rispetto: premiere alla Berlinale, poi Karlovy Vary, Salonicco, Tallinn. Ad ogni modo il cinema proveniente dall’Islanda si rivela sempre pazzesco. E questo secondo lungometraggio di Guðmundur Arnar Guðmundsson (già alle prese con un aspro, urticante racconto di formazione all’esordio, nel 2016, con Heartstone) va ad aggiornare (e per certi versi a ribaltare) certi ritratti cinematografici ormai datati della gioventù islandese, vedi il pur notevole 101 Reykjavík diretto nel 2000 da Baltasar Kormákur, puntando dritto verso gli adolescenti e i tanti casini in cui sono oggi immersi: bullismo, famiglie disfunzionali, realtà scolastiche poco attente, padri alcolizzati, noia affiorante nei sobborghi più degradati della capitale. Già, non è questa la Reykjavík che siamo abituati ad immaginare e anche il Welfare dei paesi nordici può nascondere un lato oscuro dalla portata impressionante.
In un coming of age così ricco di sfumature Guðmundur Arnar Guðmundsson ce lo mostra senza falsi pudori, senza freni inibitori, rivelando al contempo una potenza di sguardo, una profondità di pensiero e un senso della narrazione davvero invidiabili.

In Beautiful Beings assistiamo di continuo a violenze giovanili, umiliazioni, pestaggi, ritratti di adulti assenti o peggio ancora portatori (insani) di altra violenza, senza però che il punto di vista dell’autore sia mai “asettico”. La volontà di approfondire il background dei singoli personaggi si porta in dote un’indagine mai scontata delle carenze affettive, delle dinamiche di gruppo, delle prime pulsioni sessuali, della ricerca di amicizie virili tra ragazzi abituati a un tran tran quotidiano particolarmente tosto. Gioventù “vichinga”, gioventù bruciata degli anni 2000.
Ad emergere con maggior forza è peraltro il punto di vista del teenager più empatico della comitiva, eletto dal regista a “storyteller” delle avventure vissute fianco a fianco col suo piccolo branco: Addi (Birgir Dagur Bjarkason), figlio di una sensitiva con qualche “dono” latente egli stesso, il primo in ogni caso ad accogliere nel gruppo un disadattato come l’introverso Balli (Áskell Einar Pálmason), vittima di bullismo al punto da far notizia al telegiornale. Può essere questo un nodo archetipico di grande spessore, nell’isola del ghiaccio e del fuoco. L’Islanda è infatti il paese dove gli eredi dell’antica religione Norrena (un culto ribattezzato Ásatrú in età moderna) sono stati riconosciuti ufficialmente dallo Stato e dove, secondo un sondaggio condotto dall’università di Reykjavik, almeno l’80 per cento degli abitanti crede nell’esistenza del «popolo nascosto» ovvero ad Elfi, Gnomi e Folletti, tra le tante creature della Tradizione. Ecco, quell’aura mistica presente nella famiglia di Addi si poggia quindi su un sostrato culturale profondo. E tali interessi esoterici alimentano pure quei segmenti onirici, surreali, che ampliano le chiavi di lettura di un racconto cinematografico già sufficientemente robusto di suo, andando a costituire per certi versi un valore aggiunto.

Stefano Coccia

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