(De)Generazioni
Il primo merito di un film come Barriere (Fences, nella traduzione letterale originale) risiede nel porre, finalmente, sullo stesso piano concettuale e artistico il cinema all-black con quello bianco, cosiddetto intellettuale. Come se Denzel Washington, da regista comunque fedele ad un cinema che guarda allo scorrere del tempo in chiave squisitamente antropologica, avesse voluto lanciare una sfida sui diritti “culturali” degli afroamericani ad uscire dagli stereotipi nei quali sono stati confinati da lungometraggi quali ad esempio il patinato Moonlight, già uscito nelle sale italiane. Niente droga, niente omosessualità, nessuna strumentalizzazione o possibilità di equivoco in Barriere: “solamente” un accurato kammerspiel di palese origine teatrale su una piccola e in apparenza quotidiana saga famigliare, eletta però ad esempio assoluto di un fuoco che cova sotto la cenere dello status quo.
Pittsburgh, anni cinquanta. Troy Maxson (il solito, impeccabile, Denzel Washington nella sua versione davanti alla macchina da presa) è un netturbino con alle spalle una vita difficile segnata dal rimpianto per una carriera mancata da giocatore di baseball poiché a suo dire discriminato; ha una moglie (Viola Davis, semplicemente eccezionale) e due figli, uno dei quali avuto dal primo matrimonio. A ciò si aggiunge un fratello menomato in guerra ed un fedele amico/collega di lavoro nonché spesso confessore.
Raramente il titolo di un’opera cinematografica è risultato così simbolico – nel senso più ampio del termine – delle intenzioni di un autore. Denzel Washington ha utilizzato la sceneggiatura di August Wilson (grande drammaturgo afroamericano, scomparso nel 2005), da tempo circolante tra gli addetti ai lavori e tratta, come detto, dalla pièce teatrale opera dello stesso Wilson, per farne un film esclusivamente basato sulla parola, elemento cardine di questo minimalista affresco di carattere umanista. Solo un flusso ininterrotto – per due ore e diciannove minuti – di dialoghi, in Barriere: frasi che talvolta tendono, empaticamente, alla comunicazione tra persone, ma più spesso a scavare voragini di diffidenza tra membri della stessa famiglia. Quello diretto da Washington è un film coraggioso poiché mantiene tra le righe del proprio discorso la questione razziale, portando invece alla luce tutte le contraddizioni che emergono nel nucleo base di ogni comunità che si voglia definire tale, ovvero proprio la famiglia. E le barriere a cui si riferisce il titolo possono essere molteplici, come ad esempio quella, insuperabile, dell’ignoranza volontaria; oppure gli ostacoli generazionali, palesati soprattutto nel rapporto conflittuale tra padre e secondo figlio, nei confronti del quale Troy si comporta esattamente come il proprio genitore si era dimostrato con lui: cioè un autentico “padre padrone”. Infatti il personaggio di Troy appare spesso perfetto catalizzatore della rassegnazione che albergava (corretto l’uso dell’imperfetto?) nell’essere umano di colore del tempo, il primo a lottare per i diritti in ambito lavorativo ma anche ad essere, spietatamente, razzista nei confronti di se stesso e della propria progenie nel nome di un pragmatismo sempre sul punto di divenire eterna ossessione.
Al di là di qualche scivolata nella prevedibilità drammaturgica e un’incongruenza di fondo nel descrivere il pater familias Troy come analfabeta in grado però di articolare discorsi di profondità pressoché filosofica, almeno a proprio modo, Barriere rappresenta in tutto e per tutto una scommessa vinta. In primo luogo, assodate le premesse di partenza, per l’ottima performance dell’intero cast, con il Washington regista che si conferma di nuovo eccellente direttore d’attori. In seconda istanza per l’abilità nel rendere, da un punto di vista formale, sensazione tattile la duplicità dell’ambiente casalingo (interno casa/giardino), da un lato rifugio dalle feroci problematiche esterne – ancora il fantasma del razzismo, ma non solo, che ritorna… – dall’altro prigione metaforica alla quale il protagonista si auto-condanna. Un rovescio della medaglia che lascia trasparire in pieno la cristallina onestà delle intenzioni di un autore che con Barriere ha realizzato – all’opera terza dopo gli interessanti Antwone Fisher (2002) e The Great Debaters (2007) – il suo lungometraggio più ambizioso.
Daniele De Angelis