Partire è un po’ morire
Partir, c’est mourir un peu…lo conosciamo come modo di dire, un proverbio della sapienza popolare. Il realtà si tratta del primo verso di una poesia del poeta francese Edmond Haraucourt, autore assai prolifico ma della cui produzione ci è rimasta solo questa frase oramai diventata proverbiale. È facile che la conosca e la avesse in mente il giovane autore franco-burkinabé Fabien Dao quando scrisse e realizzò questo suo Bablinga, cortometraggio presentato in concorso al 30° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina.
Ultimo capitolo di una trilogia dedicata alla figura del padre, anch’esso regista, è lo stesso Dao a descriverlo come: “un film meticcio franco-burkinabé, come me”. Nella storia del protagonista Moktar, un intenso ancorché laconico Cisse Maims, che il giorno della definitiva chiusura del suo bar Bablinga in Francia giurava che sarebbe tornato in Burkina Faso, possiamo ritrovare la storia di tanti emigranti che passano gli anni a vagheggiare il ritorno, fino al giorno nel quale la possibilità si trasforma in realtà. La pellicola infatti è la messa in scena di un dissidio interiore tra il desiderio di tornare alle proprie origini ed il timore di non trovare più ciò che si è lasciato. Ed è probabilmente per questo che quello che vediamo è un film fantasmatico nel quale aleggia fin da subito un alone di morte. Aura di morte sì, ma non di tristezza, quanto di malinconia. Forse per questo, in quella che dovrebbe essere la sua ultima notte in Francia, Moktar viene visitato dai fantasmi del suo passato, venendo così spinto ad un esame di coscienza. Nel compilare un bilancio della sua esistenza non risparmia nulla a se stesso, né le luci né le ombre. E proprio un film di luci appare essere questo. Un film scolpito dalle luci, siano esse le luci livide di un mattino invernale sulla costa francese che quelle più calde e multicolori di un locale dove si beve e si balla. Tutto però ha un sapore di commiato. Commiato da tutto ciò che si ha e non si ha vissuto, dalla vita che si ha e non si ha avuto. Non deve essere un caso la struttura circolare dell’opera, che termina come era iniziata, sulle rive dell’oceano, guardando verso l’orizzonte steminato. L’oceano appare qui assumere la dimensione di limite e di ponte che il regista intende usare per rappresentare il senso di sradicamento e di indeterminazione di tanti immigrati africani, venuti sì in Europa alla ricerca di una nuova vita ma sempre con la mente rivolta ad un ritorno a casa. Quale casa? La casa della loro infanzia e gioventù? Difficile esista ancora. E allora, ritornare a cosa, a chi? Tutte domande senza risposta. Si dice che i primi schiavi africani in America, quando la nostalgia di casa si faceva troppo forte, si annegassero in mare dicendo in tal modo di tornare a casa. Forse è questo ciò che fa Moktar, torna a casa, ma non la casa reale, che non esiste più, ma la casa del suo spirito, che esisterà sempre. E ciò a cui assistiamo è in realtà un rito funebre.
Luca Bovio