Il falò delle falsità
Quanti film metacinematografici hanno realizzato, nella loro ormai lunga carriera, i fratelli Coen? Analizzandoli da un punto di vista semiotico, tutti, talmente alto è il tasso di cinefilia consapevole che ha permeato – e continua a farlo – i loro lavori. Se invece la risposta è affidata a criteri maggiormente filologici allora nessuno, prima di questo Ave, Cesare!, autentica “messa in abisso” della realizzazione cinematografica attraverso l’approfondita analisi dei suoi molteplici processi creativi, se così possiamo definirli. Per i Coen Hollywood è mitologia pura, un mondo a parte dove ogni cosa può verificarsi senza mai scadere nell’inverosimiglianza. Ce ne avevano offerto un corposo assaggio “esterno” in Barton Fink (1991), l’opera quarta che li incoronò ufficialmente Autori con la maiuscola grazie agli allori mietuti al Festival di Cannes e a Roman Polanski presidente di giuria. Ma al tempo regnava l’inquietudine, la diffidenza verso un universo sconosciuto, minaccioso ed ostile. Sempre usando i generi come virtuosi giocolieri, Barton Fink scivolava gradualmente dal grottesco all’horror, esplicitando le paure più recondite dell’intellettuale (nella fattispecie lo sceneggiatore del titolo, interpretato da un attonito John Turturro) nei confronti dell’ambiente capitalista per eccellenza. Un quarto di secolo è trascorso ed i Coen sono, se non cresciuti, certamente cambiati. Così, in Ave, Cesare!, al centro di una vicenda genialmente intricata come si conviene ai fratelloni originari di Minneapolis e mai omologabili alla dorata galassia degli studios, c’è tutta una serie di contrapposizioni simboliche, in apparenza contrastanti sino all’eccesso ma in realtà figlie del medesimo “padre putativo”. Il quale è di color verdognolo e porta l’effige di George Washington stampata su uno dei due lati.
Protagonista di Ave, Cesare! è Eddie Mannix (un superlativo Josh Brolin), dirigente factotum di un grosso studio hollywoodiano. Incaricato dalla proprietà, per dirla alla Wolf di Pulp Fiction, di “risolvere problemi”. Abbondanti, a dire il vero. Un uomo, insomma, senza uno specifico talento ma di grande pragmatismo e buona volontà, al quale fa da contraltare il vagheggiato “Uomo Nuovo” invocato da un fantomatico gruppo comunista che guarda all’Unione Sovietica come ad un modello da imitare. Siamo, ovviamente, negli anni cinquanta; ambientazione temporale che fornisce ai Coen lo spunto per colorare di lucida nostalgia il bieco presente. Così George Clooney interpreta Baird Whitlock, divo rappresentante alla perfezione della categoria poiché, dietro le quinte, dedito a donne e alcool. Scarlett Johansson è una simil-Esther Williams iraconda e tabagista appena oltre la maschera della finzione, mentre non mancano i richiami a Tom Mix nella figura di un attore volitivo ma stupidotto (impagabile l’inedito, perlomeno a questi livelli, Alden Ehrenreich) in grado di interpretare solo western. Ma capace di riscattarsi risolvendo il caso del rapimento di Whitlock. Americano purissimo, dunque…
Se ad una prima visione il film può sembrare meno divertente di quanto le premesse non facessero supporre, è al secondo grado di lettura che Ave, Cesare! manifesta l’inconfondibile segnaletica del cinema coeniano. La struttura confezionata dai Coen per questa ultima fatica è un labirinto di specchi che abbatte ogni fragile parete posta a dividere cinema e realtà, ammesso che di realtà effettiva e non di girotondo di follia si possa parlare. Lo script confonde ad arte, su più livelli narrativi, generi e sottogeneri, comunismo e cristianesimo, spiritualità e rapacità, ragion di stato e impossibili utopie. Il tutto innestato in una confezione come di consueto smagliante – soprassedendo sulla millimetrica composizione delle inquadrature, monumento al fedelissimo direttore della fotografia Roger Deakins – nella ricreazione di un micro-macro-cosmo dove ciò che manca (nella finzione del film nel film Ave, Cesare! per l’appunto) è proprio la passione, la Fede con la maiuscola. Come quella parolina magica che Whitlock/Clooney non riesce assolutamente a pronunciare nell’ultima scena madre del film che sta girando. Perché Ave, Cesare!, sia nella visione generale che in quella particolare, è assieme una presa di distanza dalla sobrietà del cinema e un atto d’amore verso lo stesso, in un afflato contraddittorio che è insito nella natura umana. Nella speranza, molto remota, che l’intelligenza recondita di un film (non) paradossalmente incentrato sulla stupidità possa in qualche modo redimere un’umanità dalla notte dei tempi smarrita nell’oceano dell’ipocrisia, dell’opportunismo e dell’ottusa ricerca della ricchezza materiale. Quasi un atto di resistenza, prima dell’inevitabile accettazione della sconfitta. Magari con un amaro sorriso sulle labbra.
Daniele De Angelis