Il ritorno su Pandora è uno spettacolo grandioso che richiede un pizzico di pazienza
Sono passati molti anni da quando il marine Jake Sully (Sam Worthington) si è stabilito su Pandora. Sulla lontanissima luna incontaminata, eppure ricca di risorse importanti, la vita scorre serena dopo che gli invasori terrestri sono stati respinti e infine scacciati. Jake, che alla fine del primo Avatar (2009) ha abbandonato definitivamente il suo corpo umano per vivere in quello alieno di un nativo na’vi, ha messo su famiglia con la compagna Neytiri (Zoe Saldana) e la coppia si è arricchita di ben quattro figli: Neteyam, Lo’ak, Tuktirey e Kiri. Quest’ultima, in realtà, è la figlia dell’avatar della dottoressa Grace Augustine, deceduta nel primo film. Il suo corpo na’vi è rimasto però conservato in sospensione in una capsula e lì, misteriosamente, ha dato alla luce la bimba che, dunque, è stata allevata da Jake e Neytiri. A dare il volto alla dottoressa Grace e alla figlia Kiri è sempre Sigourney Weaver. A chiudere il quadro familiare c’è un ragazzo umano che, troppo piccolo per entrare in una capsula criogenica all’epoca in cui i terrestri si sono ritirati, è stato lasciato indietro ed è cresciuto con la popolazione indigena: è Miles, detto “Spider” (Jack Champion), miglior amico dei ragazzi Sully e figlio di quel defunto colonnello Miles Quaritch che, nel primo capitolo, conduceva in modo spietato le truppe terrestri alla conquista di Pandora. L’idillio, dopo un’epoca di pace, ha termine perché “la gente del cielo”, la popolazione della vecchia Terra (che scopriamo essere ormai morente), torna in forze per un altro tentativo di conquista. Nessuno ha dimenticato il tradimento di Jake, tanto che sulle sue tracce viene messa un’intera sqaudra di marine e non certo una qualsiasi. Si tratta degli avatar na’vi degli stessi avversari uccisi durante la prima guerra, i cui ricordi sono stati scaricati in un computer terrestre e poi ricaricati nella mente dei nuovi corpi e, ancora peggio, alla guida c’è proprio il colonnello Quaritch assetato di vendetta. In seguito al rapimento di “Spider”, Jake capisce che è il momento di abbandonare le tanto amate foreste perché, con le informazioni in possesso del prigioniero, certamente gli eserciti umani lo verranno a cercare massacrando tutta la sua gente. Deve quindi fuggire lontano, in una regione remota, per nascondersi e cercare di ridare un futuro alla propria famiglia. Il luogo prescelto è il “reef”, uno splendido arcipelago che punteggia gli oceani e il cui leader, Tonowari (Cliff Curtis), li accoglie nonostante le rimostranze della consorte Ronal (Kate Winslet). L’adattamento alla nuova vita, al nuovo ambiente acquatico e alle usanze della popolazione locale è particolarmente difficile, ma i Sully ce la mettono tutta. E sembrano riuscirci per un po’ di tempo. Ma un giorno, la guerra giunge ad esigere il dazio di morte anche sulle distese dei mari.
Arriva finalmente al cinema l’ambiziosissimo progetto di James Cameron, in lavorazione da più di dieci anni e la cui uscita è stata ripetutamente rimandata. Si tratta sì di un secondo capitolo, ma è in nei fatti l’inizio di una vera e propria saga che prevede già di arrivare al numero quattro per il 2026 e poi, se il successo sarà soddisfacente, è nei piani un quinto film a chiudere un racconto che vuole certamente essere epico. Questo Avatar 2 : La via dell’acqua è un titolo complesso, vedremo se riuscirà a replicare l’enorme impatto che il predecessore ha avuto sull’immaginario popolare e sulla tecnica cinematografica. La mano del regista di Terminator (1984), Aliens (1986), The Abyss (1989) e Titanic (1997), solo per citare alcune delle sue più celebri creazioni, indubbiamente si vede. La tecnologia è rappresentata in modo realistico: i macchinari, anche quelli avanzati, hanno un aspetto brutalmente industriale, i computer sono onnipresenti ma accessori, mai dotati di quell’intelligenza artificiale capace di sostituire gli uomini che, nel bene o nel male, rimangono sempre al centro della storia. E parlando appunto della storia, difficilmente potremmo trovare nell’opera di Cameron qualcosa che più di Avatar traduce in immagini quello che è il punto di vista filosofico del regista, il suo modo di concepire il mondo, il rapporto di equilibrio con la natura vissuto attraverso un necessario, fortissimo rispetto. Se i na’vi delle foreste ricordavano in modo scoperto i nativi americani, gli abitanti del “reef” hanno gli inconfondibili tratti dei Maori, non un caso vista la scelta di Cameron, ormai abbracciata da molto tempo, di trasferirsi e vivere con la moglie in Nuova Zelanda. In sostanza, è un autentico manifesto politico, aspramente critico nei confronti dello sfruttamento indiscriminato delle risorse di quella Pandora che, nelle intenzioni, dovrebbe richiamare la parte ancora viva del nostro pianeta Terra. Sullo schermo non c’è solo uno scontro fra due mondi in competizione, ma un conflitto fra civiltà, fra due modi completamente diversi di intendere la vita, l’esistenza e l’essenza stessa del Creato. Quello che viene messo in scena, visivamente e tecnicamente, è un’assoluta gioia per gli occhi, il prodotto di un talento visionario che può essere apprezzato a dovere solo al cinema e che dà vita ad un universo completo, con la sua fauna, i suoi ritmi scanditi da piogge ed eclissi, la migrazione ciclica degli animali: qualcosa che, in definitiva, appare come “vero”, facendoci dimenticare a tratti che quasi tutto ciò che osserviamo è in realtà il frutto di un’avanzata computergrafica. Qualche problema, in tutta questa magnificenza, si fa però sentire. Il primo è certamente la durata perché questo mondo, queste società aliene, per “prendere vita” con verosimiglianza, e farlo in modo progressivo come desidera Cameron, impiegano un totale di tre ore e un quarto, davvero molte per la maggior parte del pubblico, soprattutto quello più giovane. La sceneggiatura, cui ha partecipato lo stesso regista, è scritta anche con Rick Jaffa e Amanda Silver che al loro attivo hanno anche film deludenti come Jurassic World (2015) e Mulan (2020). Non è dato sapere quali fasi della storia siano state curate dai tre, né in quale misura, ma certamente alcune battute, o interi dialoghi, risultano grossolani. E’ stata pensata un’intera parte della pellicola i cui protagonisti sono degli adolescenti, con le loro antipatie, dispetti, infatuazioni: valeva la pena impiegare quasi un’ora per mostrare i rapporti tra i figli di Jake e Tonowari, cioè per strizzare l’occhio ai “teen drama”? Quando il piccolo ciclo si chiude, ci siamo quasi dimenticati della trama principale che, va detto, non ha nulla di straordinario. Tutto sommato, si riprendono esattamente gli elementi del primo Avatar, solo per riproporli in modo più “grande”, cambiando lo scenario dalle foreste agli spazi marini mantenendo inalterato il resto, incluso l’antagonista! E’ una scelta fin qui debole, anche se, come detto, dobbiamo pensare a questo secondo capitolo come il reale inizio di un saga che andrà ad evolversi notevolmente nei prossimi anni, tanto da far pensare all’originale come ad una sorta di prologo, di antefatto, servito quasi a saggiare il terreno. Poi, presi gli ingredienti che hanno funzionato meglio, si è passato a realizzare il racconto vero e proprio tanto che, sia chiaro fin da ora, qui non c’è un finale comunemente inteso. Alcuni dei misteri che vengono introdotti rimangono tali, altri spunti narrativi rimangono aperti e danno ad intendere che ci sarà molto altro da vedere in futuro. Dunque, bisogna mettersi nella prospettiva di andare a vedere un film che ci riporta su Pandora, che ci riassume un po’ quanto avvenuto tanti anni fa, e che crea le condizioni di affrontare una nuova epica cinematografica di cui, per ora, possiamo solo intuire gli sviluppi. Niente paura però, a differenza dello sciagurato trattamento che Disney ha riservato al bistrattato universo di Star Wars, qui Cameron ha già pensato a tutto il resto, lo ha scritto ed ha già cominciato a filmarlo. Pur con qualche inciampo nella sceneggiatura, insomma, la guerra per questa nuova lussureggiante frontiera è un autentico spettacolo di grande cinema ed è appena agli inizi.
Massimo Brigandì