L’arma del linguaggio
Denis Villeneuve, che con il suo Arrival era fra i registi più attesi di questa 73esima edizione della Mostra Cinematografica di Venezia, è reduce da 3 nomination agli Academy Awards per Sicario (2015), e noto per aver diretto film tanto affascinanti (Polytecnique (2009) e Prisoners (2013) su tutti) quanto diversi tra loro, ma accomunati da una regia estremamente accurata e coinvolgente, attestazione di un talento versatile e di un ingegno disposto a saggiare i generi più insidiosi: con Arrival Villeneuve si prepara a fare i conti con quello fantascientifico, e non solo riesce nell’impresa senza particolari cadute, ma mette in scena un’interpretazione originale e ambiziosa di un genere che oramai sembrava quasi impossibile rinnovare.
Tratto da Storia della tua vita, racconto inserito nella raccolta omonima di Ted Chiang e adattato per il grande schermo da Eric Heisserer, Arrival prende le mosse dall’atterraggio di dodici oggetti misteriosi in altrettanti punti della superficie terrestre: per comprendere il significato dell’evento e in primo luogo le intenzioni di chiunque lo abbia messo in atto i militari si avvalgono dell’aiuto di Louise (Amy Adams), un’ affermata linguista, e dello scienziato Ian (Jeremy Renner).
Il compito affidato a Louise, quello di stabilire un contatto grazie alla decifrazione di una lingua aliena, diventa l’occasione per affrontare il tema del linguaggio e della sua ambivalenza: ponte tra noi e gli altri e fonte di barriere invalicabili, arma da guerra e chiave per redimere ogni conflitto, il linguaggio rimette a noi e al modo in cui decidiamo di servircene il suo destino unificante o divisorio. È per questo che vediamo Louise procedere così lentamente durante le sessioni di “conversazione”: nelle bellissime scene in cui nient’altro che una lastra di vetro separa lei e Ian dalle due forme di vita aliena si respira un’atmosfera affascinante e sospesa, come se da un momento all’altro quella barriera potesse sì svanire senza mietere vittime o ferire nessuno, ma anche infrangersi in mille pezzi e consacrare una guerra senza precedenti. Ed è sempre per questo che Louise considera il linguaggio nel suo senso più universale, e che viene perfettamente espresso dalla parola ebraica usata per designarlo: dabàr significa sì linguaggio, ma non nel senso limitativo di “discorso” (il lògos dei greci), ma in quello performativo di “evento”. Dio creò le cose, l’universo, l’uomo per mezzo della parola, di una parola-atto che si fa carne e che rende possibile la comunione del Creatore con il creato, della quale il Giardino dell’Eden è il simbolo più evidente. Da grande studiosa qual è, Louise sa che se non si seguono determinate regole un contesto idilliaco può essere infranto (la cacciata dal Paradiso terrestre), e quindi cerca di individuare sin da subito quanto il linguaggio umano e quello alieno siano effettivamente affini, e quanto invece si discostino l’uno dall’altro nelle rispettive interpretazioni dei concetti principali. Solo una volta fatto questo potremo porre ai due alieni il quesito definitivo: “che intenzioni avete?”
Sinora abbiamo descritto l’apporto teorico di Arrival, reperibile soprattutto nella sua prima parte. Ma Villeneuve non si limita a sondare le sfaccettature di una relazione linguistica, e lungo tutta la durata del film mette in piedi un congegno basato su una concezione unitaria del tempo (del quale non possiamo rivelare di più pena lo svelamento di snodi fondamentali), una trovata parzialmente macchinosa simile a quelle nolaniane ma dai toni più intimi e commuoventi. Ciò che fa riconoscere in Arrival un prodotto di Villeneuve è comunque la sua potenza visionaria: lo sguardo del regista canadese si conferma ancora una volta tra i più evocativi in circolazione, e le sessioni che scandiscono l’avvicinamento della nostra specie a quella degli “invasori” sono difficili da dimenticare, anche grazie alle musiche di Jóhann Jóhannsson, compositore già per Sicario.
Per quanto riguarda i personaggi, è quello di Louise che finisce per risultare psicologicamente credibile (merita une menziona la toccante interpretazione di Amy Adams, finalmente valorizzata dopo i ruoli poco soddisfacenti degli ultimi anni), contrariamente a quello di Ian, che ne esce un po’ penalizzato: il contributo della scienza alla missione è poco chiaro, come la relazione (ammesso ve ne sia una) dell’ambito scientifico con quello linguistico.
Sebbene i primi sessanta minuti di Arrival superino in coesione il proseguo della pellicola, che soprattutto sul finale rischia di rimanere schiacciata sotto il peso degli argomenti sollevati, l’ultima fatica di Villeneuve merita l’accoglienza ricevuta all’anteprima stampa di questa mattina, quanto meno per la sua forte personalità e potenza visiva.
Ginevra Ghini