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Arracht

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VOTO: 7.5

La fame e l’isola

Nel periodo tra il 17 e il 21 aprile l’Irish Film Festa, manifestazione cinematografica capitolina migrata forzatamente e (si spera) temporaneamente sul web, ha programmato su una nuova piattaforma la possibilità di vedere tre lungometraggi inediti, scelti tra i migliori della produzione irlandese recente. Singolare, ma neanche troppo, il fatto che di questi tre ben due facciano riferimento alla tragica carestia che funestò la verde isola a metà dell’800: il dato statistico è rilevante, ma va detto che l’argomento pare molto gettonato negli ultimi anni, sia a livello documentaristico che per la produzione di corti e lungometraggi di finzione invero quasi sempre emozionanti, appassionanti, tesi come corde di violino; anche e soprattutto quando è l’asciutta parafrasi di generi tanto popolari quanto sanguigni ad imporsi. L’esempio più forte è rappresentato senz’altro da Black ’47, il film di Lance Daly dal cast sontuoso e dal cospicuo budget ammirato durante l’Irish Film Festa 2019.

A proposito di presenze attoriali importanti, pure quell’Arracht (Monster) da noi visionato in questi giorni non scherza mica. Nei ruoli più importanti ritroviamo ad esempio Dara Devaney, protagonista di un bel videomessaggio di saluto agli spettatori del festival, e lo stakanovista Seán T. Ó Meallaigh, altra figura ormai ben nota al pubblico di Roma.
Sguardi intensi e profondi, vesti logore, atteggiamenti ruvidi, la componente maschile (ma a tratti anche quella femminile) del cast ripropone per certi versi la chiave del western crepuscolare, livido, già esplorata in Black ’47, privilegiando però dei toni per così dire minimalisti e in perfetta simbiosi con l’essenzialità della messa in scena.
Un tratto di costa roccioso e non particolarmente ospitale. La vicina isoletta, visitata spesso dai protagonisti. Il terreno brullo. Le catapecchie rurali dove vivono le famigliole più povere. La residenza ben più lussuosa del signorotto locale fedele suddito di Sua Maestà Britannica. I piccoli appezzamenti di terreno coltivati a patate su cui spirerà presto un vento mefitico. Già, perché su questo scenario, tratteggiato impressionisticamente dallo sceneggiatore e regista Tom Sullivan con pochi tocchi sapienti, caleranno a breve il devastante parassita dei modesti – ma per i locali preziosissimi – tuberi e la non meno deleteria arroganza inglese, corresponsabili di quella carestia che (come evidenzia l’altro titolo in programma: The Hunger: The Story of the Irish Famine) assunse per certi inquietanti aspetti di noncuranza, disprezzo e oppressione coloniale connotati affini a quelli di un genocidio.
In questo tetro affresco un ispirato Tom Sullivan ha saputo inserire, con tempi perfetti e grande attenzione all’elemento naturalistico, una cruda storia di sopraffazione, lotta per la sopravvivenza e difficile salvaguardia dei valori umani, che grazie alla regia tagliente e al grande impegno profuso dagli interpreti s’impone maestosamente sui brulli paesaggi dell’isola. E di rimando su quella mesta pagina di Storia, che pesa come un macigno sui poco onorevoli trascorsi dell’Impero Britannico.

Stefano Coccia

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