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Armageddon Time – Il tempo dell’Apocalisse

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VOTO: 8

La rivoluzione mancata

In una scuola pubblica del Queens due adolescenti – Paul, un giovane ebreo bianco e Johnny, un ragazzo nero – provocano il loro professore e finiscono in punizione durante l’ora di educazione fisica.
La prima sequenza di Armageddon Time, ultima fatica di James Gray, è accompagnata dalle note dei The Clash: è il 1980 e fuori dalla classe c’è un America che tra la corsa allo spazio e le ribellioni sociali si prepara all’imminente vittoria di Ronald Reagan. Il tempo dell’apocalisse non è solo una citazione discografica, nel nostalgico ricordo dell’adolescenza del regista, ma è anche il momento di spartiacque tra la rivoluzione progressista e la deriva conservatrice che da quel fatidico 4 novembre segnerà la società statunitense.

Crescere nell’America tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 significa portare con sé, insieme alle congenite contraddizioni dell’adolescenza, quelle di una società che sentiva la tensione verso una rivoluzione che non avvenne mai.
La famiglia borghese di Paul – composta da un cast d’eccezione che James Gray riesce sempre a riunire (Anne Hathaway, Anthony Hopkins, Jeremy Strong, ma anche la partecipazione di Jessica Chastain nei panni di Maryanne Trump) – è il luogo dove questa tensione ha il suo inesorabile compimento. I genitori, dall’apparente orientamento liberale, inorriditi dalla nuova presidenza, temono al contempo la scuola pubblica, le brutte frequentazioni, e soprattutto le ambizioni del figlio, che – come tanti figli repressi o incompresi – vuole fare l’artista.
Dal canto suo Paul, differentemente da molte altre narrazioni autobiografiche, non si configura come una vittima idealizzata. Cerca di far ridere i suoi compagni, è perennemente distratto, irrequieto con le autorità, e soprattutto ama Kandinskij. L’arte astratta, citata a più riprese, non è casuale: come Johnny, che vuole diventare astronauta e raggiungere lo spazio, anche Paul cerca disperatamente di esprimere una soggettività negata. Quelli che apparentemente sembrano i sogni infantili di due ragazzi, sono in realtà il rifiuto provocatorio della realtà, la proiezione verso un altrove lontano – sia esso fisico (lo spazio), o immaginato (l’astrattismo). Il disperato tentativo finale di rubare un computer per scappare in Florida scandisce il climax ascendente verso un traguardo che non può essere raggiunto.

La rivoluzione mancata del giovane Paul è in ultima analisi il tema portante del passaggio dall’infanzia all’età adulta. La sua repressione si manifesta non solo attraverso l’azione e le circostanze esterne – la cinghia del padre come punizione, nel tempo non troppo lontano di un patriarcato violento – ma anche attraverso il conflitto interno del protagonista. Quest’ultimo è espresso con dolcezza dall’interpretazione magistrale del giovane Michael Repeta, che restituisce al personaggio una sensibilità mai eccessiva: emozioni moderate e controllate, una giustizia che rimane incompleta. Stavolta, nel racconto della lotta al razzismo, non ci sono martiri o giustizieri, ma un ragazzo che cerca di far sentire la propria voce e che spesso rimane in silenzio.

È proprio il lavoro sul silenzio che esplicita il conflitto generazionale. Fin dalla prima sequenza, il silenzio che intercorre tra il richiamo del professore e l’ammissione di colpa di Paul sembra essere lunghissimo: l’intero film si configura come un’attesa verso una voce che non prende forma.
La comunicazione tra due generazioni non può avere luogo – i padri non ascoltano, i figli hanno difficoltà a parlare. L’unica speranza di dialogo, in un panorama eterogeneo di personaggi fragili, è concessa dal nonno Aaron. È proprio il personaggio di Anthony Hopkins (all’alba dei suoi ottantacinque anni), diametralmente opposto alla figura del padre, a lasciare il suo ultimo insegnamento a Paul – accettare un mondo che non è bello, ma in cui è bello lottare.

Silvia Campisano

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