Un’eroina da riscoprire
Oh, come list’ a while and I’ll sing you a song
Of Anne Devlin of the hills
She’s the flower that blooms forever in our land
But her dreams of peace and freedom died forever
From the day that Emmet failed to free our land
In the shadow of hills, there’s no kindness from the vanquished
In the darkness of your jail, no friendly face of ours
Only torture, pain and suffering and broken dreams and sorrow
And a future life of poverty, shadows of your years
The Wolfe Tones, “Anne Devlin“
L’emozionante ballad che le dedicarono i Wolfe Tones, celebre band irlandese il cui legame più profondo è con la musica folk e più in particolare con le rebel songs repubblicane, era stata inserita nell’album Child of Destiny, datato 2011. Mentre risale al 1984 il biopic della regista irlandese Pat Murphy, intitolato per l’appunto Anne Devlin e inserito nel programma “Irish Classic” della 15a edizione dell’Irish Film Festa, che ha avuto luogo la settimana scorsa alla Casa del Cinema di Roma. Come a dire che periodicamente la cultura irlandese si ricorda di omaggiare anche questa donna coraggiosa, quest’eroina rivoluzionaria dallo spirito integerrimo, troppo spesso compressa e per così dire “schiacciata” nell’immaginario collettivo da figure (perlopiù maschili) che, nel lungo percorso dell’Irlanda verso l’indipendenza e la libertà, hanno conosciuto senz’altro un maggior numero di celebrazioni, tributi, rivisitazioni filmiche.
Fatto sta che, seppur meno conosciuto in Italia di altri “classici” del cinema irlandese contemporaneo, quello diretto da Pat Murphy oltre a metterne in luce la figura da una prospettiva non così scontata ha il merito di essere un gran bel film, sia per la cura formale che per le ricostruzioni ambientali e l’attenzione agli sviluppi narrativi.
Film in costume girato con uno scrupolo filologico davvero notevole, Anne Devlin affronta il background famigliare, l’impegno politico e la dignità della donna di fronte alla severa, crudele repressione inglese, inanellando scene emblematiche e momenti introspettivi di immenso valore. L’attenzione si focalizza da un certo punto in poi sullo sfortunato tentativo di insurrezione del popolo irlandese promosso da Robert Emmett, ma nonostante l’empatia nei confronti dei rivoluzionari l’effetto non è mai agiografico, anzi, si può dire che le letture politiche dell’evento tendano sempre ad andare in profondità, ad approcciare analiticamente e criticamente le circostanze storiche, non limitandosi ad esempio alla prospettiva nazionalista ma alludendo al contempo alle differenze di genere e di classe.
Di impatto ancora maggiore è la parte successiva all’arresto di Anne Devlin, allorché la brutalità della detenzione e le sottili sevizie psicologiche imposte dai carcerieri britannici segnano un punto di non ritorno. Ma questo è anche il momento in cui la tempra morale della giovane donna emerge con maggior vigore. Quasi rimandando alla sublime austerità di pellicole come La passione di Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer, le stesse scelte stilistiche e registiche attuate nel lungometraggio enfatizzano tali tensioni dialettiche, imprimendo un marchio evidente, indelebile, sul rapporto tra vittime e carnefici. Emblematica, in tal senso, è la lunga sequenza con la camera fissa in cui Anne Devlin, nella semi-oscurità della stanza usata per il suo interrogatorio, si confronta con uno degli inquisitori inglesi, separata da lui solo dalla debole luce di un lume. L’ottimo impiego delle luci naturali, che nei momenti migliori può ricordare l’utilizzo ancor più magistrale che ne fa Kubrick in Barry Lindon, rappresenta del resto un timbro di rara forza espressiva: lode, pertanto, sia a Pat Murphy che all’autore della fotografia Thaddeus O’Sullivan, sodale di prestigio in quanto anche lui cineasta capace di lasciare il segno in quegli anni di svolta e di crescita del cinema irlandese.
Stefano Coccia