Lost in space
Non c’è manifestazione audiovisiva dedicata allo Sci-Fi che si rispetti senza almeno uno space-opera in programma. In tal senso al Trieste Science+Fiction Festival ne abbiamo visti tanti in questi anni, alcuni dei quali di grandissima qualità e altri come Aniara che non hanno purtroppo incontrato i nostri gusti. Quello presentato nel concorso della 19esima edizione della kermesse giuliana, firmato a quattro mani da Pella Kågerman e Hugo Lilja, promette bene per poi perdere strada facendo componenti importanti per la sua navigazione sopra la soglia della sufficienza. Peccato perché ciò che il duo svedese è riuscito a tirare su con i pochi mezzi economici a disposizione, trovando soluzioni scenografiche in grado di fare di necessità virtù è davvero meritorio. Per comporre la topografia della location principale, ossia l’astronave che presta il nome al titolo di questa coraggiosa opera prima di provenienza scandinava, gli autori hanno messo insieme i locali dismessi di una scuola e di un centro commerciale. Il risultato da un punto di vista dell’omogeneità e della credibilità dell’ambientazione ha dato loro ragione, perché la messa in scena funziona e presta il fianco al concept che vuole il velivolo in questione prendere le sembianze di una gigantesca nave da crociera con tutti i confort incorporati. Purtroppo, tutto questo come vedremo non è abbastanza per garantire al prodotto finito gli esiti sperati.
Tratto dal profetico poema epico dello scrittore svedese e Premio Nobel Harry Martinson, il film ci porta a bordo della Aniara, una delle molte astronavi che vengono utilizzate per trasportare la popolazione terrestre verso la sua nuova casa: Marte. È stata disegnata per venire incontro ai bisogni di una specie che ha appena terminato di consumare la sua terra d’origine: è un gigantesco centro commerciale. Ma mentre sta lasciando la Terra in rovina, Aniara entra in collisione con dei detriti spaziali e finisce fuori rotta. I passeggeri di Aniara prendono lentamente coscienza del fatto che non saranno mai più in grado di tornare indietro: continueranno a viaggiare per sempre in un vuoto e freddo universo. Insomma, una sorta di Titanic che invece di solcare gli oceani e impattare con un iceberg finisce alla deriva nel mezzo dello spazio, ma senza andare a picco. Il che darà il via a un’odissea lunga decenni in cui il personale di bordo e i passeggeri dovranno imparare a convivere e a sopravvivere in una micro-società con regole da stabilire a da fare rispettare.
I cineasti svedesi danno una forma e una sostanza narrativa e drammaturgica a un poema nordico piuttosto noto, ma il compito si dimostra più arduo del previsto, tant’è che il risultato nel suo complesso funziona solo a fasi alterne, ossia quando ritmo, one lines e costruzione dei personaggi remano nella stessa direzione senza sfaldarsi. Aniara su questo fronte appare discontinuo e scollato, poiché incapace di dare un collante all’enorme mole di temi, stilemi e dinamiche insite nella matrice letteraria di provenienza.
Kågerman e Lilja cuciono insieme i pezzi di un dramma galattico che se fosse piantato sul pianeta Terra altro non sarebbe che una riscrittura per immagini, suoni e parole de Il castello kafkiano, luogo per natura fisica e astratta spesso oscuro e a volte surreale, centrato sui temi della burocrazia, della legge come ordine globale, e quindi dell’alienazione e della frustrazione continua dell’uomo che tenta di integrarsi in un sistema che mentre lo invita, contemporaneamente lo allontana emarginandolo. La fauna variegata che popola l’astronave ne diventa l’estensione e allo stesso tempo la sua negazione quando si trasforma in una cloaca di esistenze costrette a vivere in un ambiente che non riesce più a contenere odio, violenza, paura e disparità di caste.
Ciò fa di Aniara un dramma sociale che avrebbe potuto dire tanto e invece si limita a restare in superficie, consegnando al pubblico un quinto del peso specifico della materia prima a disposizione, attuale sotto moltissimi punti di vista, lasciando in sospeso un enorme potenziale inespresso. Un gran peccato perché i presupposti per fare bene e di più c’erano, ma non hanno raggiunto uno schermo che rimane orfano di qualcosa che sarebbe potuto essere e non è stato nelle mani di registi che tecnicamente sembrano avere tutte le carte in regola (vedi l’ottima resa delle sequenze dei ricordi terrestri). Restiamo a vedere cosa ci riserveranno in futuro.
Francesco Del Grosso