Ricordo di un pastore
A nuovo millennio ormai inoltrato, in un secolo attuale per molti versi soffocato dall’innovazione tecnologica, stupisce che ci sia ancora spazio per un cinema umanista e, a proprio modo, radicale come quello proposto dal documentarista belga Philippe Van Cutsem con il suo lavoro intitolato Albert, berger, selezionato al Bergamo Film Meeting 2021 nella sezione Visti da Vicino, per l’appunto dedicata al cinema a carattere documentaristico.
La scelta di dedicare un’intera opera cinematografica ad approfondire l’esistenza di un pastore francese di origine italiane vissuto tra il 1894 e il 1963 suona già di per se come un gesto anarchico, di un ritorno al passato motivato dall’importanza della memoria. Di una vita in apparenza insignificante ed invece piena come quasi tutte le altre, le stesse che meritano molto più di un pensiero a loro dedicato. Albert François Ciocca – questo il nome del pastore in questione – non aveva nulla di speciale. Se non il fatto di lasciare incise, nelle varie dimore di fortuna in pietra dove soggiornava mentre gli ovini erano al pascolo, alcune frasi interpretabili come massime di vita vissuta. Osservazioni sul lavoro, l’amicizia, le donne, il sesso, il piacere del bere. Periodi spesso scritti in un francese stentato, quasi illeggibile per forma e usura dovuta al tempo trascorso, ma che hanno comunque attirato l’attenzione del regista. Il quale appunto si è dedicato anima e corpo all’esplorazione della zona prealpina della Provenza, raggiungendo soprattutto a piedi luoghi decisamente impervi, riuscendo a tracciare una simbolica mappa del percorso professionale di Albert Ciocca, oltre ad una ricostruzione dettagliata della sua infanzia e adolescenza, prevedibilmente molto travagliata.
Suddiviso in capitoli che donano un ulteriore virtuale importanza alla vita di Ciocca, Albert, berger (berger significa proprio pastore. In astratto pare quasi un cognome fittizio, come se la professione svolta contribuisse ad inquadrare in modo chiaro l’individuo…) ci porta prima a scoprire le incisioni del pastore grafomane, quindi lascia spazio alle interviste a persone – all’epoca bambine, ora anziane – che lo hanno conosciuto. Le voci si rincorrono, su immagini dei posti evocati nei racconti così come sono oggi. Una distonia temporale capace di creare un insondabile profondità poetica, poiché in grado di fornire una misurazione palpabile del tempo che, inevitabilmente, scorre. Voci del passato che descrivono una persona in maniera articolata, restituendogli quella dignità assoluta che un’esistenza grama gli aveva troppo spesso negato in vita. Sovente a servizio di gente che lo sfruttava a paghe molto basse o semplicemente in cambio di qualcosa da mangiare.
Nella terza parte di un documentario di un’ora di durata, che a posteriori appare densissima di chiavi di lettura, Van Cutsem ricostruisce, attraverso il ritrovamento di documenti originali, la gioventù del pastore. Affidato momentaneamente alla sorella maggiore dopo la morte prematura di entrambi i genitori venne dato in adozione dall’età di solo dieci anni. Da lì un susseguirsi di fughe, narrazione di una vita nomade punteggiata esclusivamente dall’istinto di sopravvivenza. E tuttavia accompagnata da una filosofia di fondo, all’insegna del pragmatismo e del disincanto, che la rende preziosa lezione esistenziale. Esattamente al pari del presupposto etico e morale che sta a monte della realizzazione del film: ogni vita merita l’interessa altrui, perché ogni uomo o donna ha una sua storia interessante da tramandare. Un’opera come Albert, berger possiede l’incommensurabile pregio di ricordarcelo ancora una volta.
Daniele De Angelis