Ciò che attrae finisce poi per respingere
L’intervallo tra due inondazioni. In questo spazio in cui ciascuno può ritrovarsi e sentirsi raccontato, c’è un uomo che decide di ricostruire una palafitta in riva a un fiume. Facendolo rinnova una ritualità di gesti che un tempo condivideva con chi, insieme a lui, andava lì a rifugiarsi. È capace di raccontare la mitologia di quel posto, rimasto selvaggio, perché, a causa delle imprevedibilità delle acque, non è mai stato interesse di mire speculative. Rimane ad aspettare la caduta di qualche albero, o semplicemente la prossima piena e magari trovare una canoa su cui farsi trasportare dalla corrente, cercando di evitare i gorghi che si formano senza preavviso. Tenendo sempre a mente che l’acqua dolce è dove tutto affonda più velocemente.
Con il suo Acqua dolce, presentato nel concorso della sezione Prospettive della 36esima edizione del FilmMaker International Film Festival, Enrico Mazzi invita all’esplorazione di un luogo rimasto a margine del contemporaneo, dalla topologia incerta, dove il fiume può inondare liberamente la terra, trasformandola nel fango più morbido in cui vi sia mai capitato di sprofondare. Ed è questo scenario selvaggio e incontrollabile, dove è la natura a dettare le leggi e a indicare agli ospiti di turno i tempi di permanenza, il vero protagonista di un documentario che ha nel racconto per immagini prima che di parole il motore portante.
L’osservazione pura, scandita da lunghe e interminabile attese, è in gran parte della timeline l’unico “strumento” utilizzato dal regista emiliano per la non-narrazione. In parte, perché purtroppo Mazzi cede alla tentazione di dare spazio alla parola, inserendo stralci di interviste ai presenti e alle memorie storiche di quei luoghi, vanificando e interrompendo bruscamente un flusso potentissimo che di parole non ne aveva affatto bisogno. Bastavano le immagini (bellissimi i camera-boat sulla canoa), infatti, a descrivere e a restituire sullo schermo quegli habitat persi in un tempo indefinito che tramutava tutto in una sorta di non-luogo da scoprire, dove perdersi per poi ritrovarsi. Quelle voci appaiono a conti fatti come una forzatura, un surplus che non aggiunge nulla che le immagini catturate dalla macchina da presa non avessero già detto e mostrato. Di fatto, quei frammenti orali e dialettici finiscono con il destabilizzare la fruizione, tanto da diventare una vera e propria violenza esercitata su quella che, senza tali intermezzi, sarebbe potuta essere una pregevole sinfonia di immagini e soprattutto di suoni. Colpisce, infatti, il pregevole lavoro di sound design, con il canto della natura contrapposto agli avvolgenti silenzi a restituire il presente e la memoria del tutto. Davvero un gran peccato.
Francesco Del Grosso