Gruppo di famiglia in un esterno
Ci si accinge qui a descrivere l’eccezionalità di un documentario, che da quando venne presentato al Sundance Film Festival 2020 (dove si è aggiudicato anche un emblematico Human Rights Award) ha fatto incetta di premi e riconoscimenti in tutto il mondo. L’approccio del cineasta romeno Radu Ciorniciuc a una dimensione esistenziale così periferica, marginale, schiacciata senz’altro da un’idea omologante e massificata di progresso, è tanto genuino quanto pregno di significati. A noi però non dispiace cercare nel cinema segni di contiguità tra realtà e fiction, ove possibile. Per cui, lo confessiamo subito, nel rapportarci ad Acasă – My Home ci siamo divertiti molto (se così si può dire) a rintracciare arcane corrispondenze tra i personaggi reali di tale documentario e quelli di un lungometraggio di finzione, Captain Fantastic di Matt Ross, al cui ricordo siamo particolarmente affezionati.
Scoperto con piacere in concorso al 32° Trieste Film Festival, il documentario di Ciorniciuc parte innanzitutto quale ricognizione di un ambiente insospettabile, estremo, situato nelle immediate vicinanze di Bucarest. Altro cortocircuito dell’immaginario, le scene iniziali dei ragazzini a mollo o in barca presso quei canali acquitrinosi ci hanno riportato alla memoria un toccante documentario del 1961, La canta delle marane, basato su testi originali di Pier Paolo Pasolini e girato nelle borgate di Roma da quella Cecilia Mangini, decana del cinema documentario italiano, che proprio in questi giorni è venuta a mancare. Come se le periferie del mondo finissero in qualche modo per assomigliarsi tutte, paesaggisticamente e antropologicamente. O come se la Romania di oggi debba in qualche modo ricordare un nostro recente passato…
L’obiettivo della videocamera ben presto si allarga. Letteralmente. Prodotto da Manifest Film (Romania) e coprodotto da Corso Film (Germania), Kinocompany (Finlandia) e HBO Europe, tale lavoro cinematografico non disdegna certo le potenzialità delle risorse messe a disposizione; come si avverte, per esempio, dalla magnifica ripresa dall’alto della baracca dove vivono i protagonisti, che si allontana progressivamente, verosimilmente per mezzo di un drone, allargando la prospettiva fino a includere quel totale, illuminante, la cui dicotomia di fondo risalta con forza nel tratto così netto, che tiene separati i grigi palazzoni e quei terreni verdi, selvatici, umidi, floridi, collocati a due passi dal centro.
Dall’urbanistica alla vita degli esseri umani il passo è breve. Tra il rigoglio della vegetazione spontanea, le tante specie di uccelli acquatici stanziali o in transito, i pesci catturati talora di notte con metodi che possono ricordare le “lampare” nostrane, ci si fa accompagnare volentieri dal regista nell’umile dimora degli Enache, Gică e Niculina, che all’epoca in cui è partita questa produzione cinematografica vivevano assieme a nove figli in una baracca senza elettricità né acqua corrente. Qui la prossimità della macchina da presa alle persone, al loro quotidiano, ai momenti di intimità famigliare e alle più accese discussioni, ci anticipa innanzitutto la grande capacità del regista (un dono artistico e ancor prima umano) di guadagnarsi la fiducia dei soggetti rappresentati, attraverso un’assidua frequentazione e il dialogo. Le scene così regalateci sono davvero preziose.
Assistiamo pertanto all’educazione sui generis di quei “ragazzi selvaggi”, al successivo intervento di politici intenzionati a regolamentare simili spazi istituendovi un parco naturale ma lasciando ai pochi abitanti (attraverso astute rassicurazioni, la cui mendacia risulterà quasi pari a quella dell’immaginario, fraudolento ministro Mocanu, ironicamente messo alla gogna in Berliner di Marian Crișan: anche questo un proficuo cortocircuito tra cinema-verità e cinema di finzione) la facoltà di restarvi ad abitare, alla quasi conseguente rottura di tale promessa con il trasferimento coatto della famiglia Enache in città. Inurbamento forzato. Rigurgiti del sempiterno conflitto tra Civiltà e Natura. Accesi contrasti generazionali, coi figli pronti a rivoltarsi contro gli insegnamenti paterni. Osservando con rispetto e attenzione le dinamiche interne di questo piccolo clan famigliare, indagandone i rapporti con la realtà circostante per più di tre anni, Radu Ciorniciuc ha saputo costruire un intenso racconto di formazione in cui tematiche forti, attuali, si innestano con naturalezza nel vissuto dei protagonisti, supportando all’occorrenza riflessioni più ampie. Più in particolare è il tentativo sempre più stanco del capofamiglia, Gică, di sottrarre i figli a determinate convenzioni sociali lasciandoli liberi di muoversi in un ordine naturale, ad averci suggerito, seppur con tutte le varianti possibili e immaginabili, l’iniziale parallelo con Captain Fantastic. Ovvio che lo sgraziato e burbero Gică non abbia l’appeal di Viggo Mortensen, che le sue sembianze non possano essere altrettanto glamour, ma entrambi i lungometraggi da noi arbitrariamente e provocatoriamente accostati, il coming of age stelle e strisce e l’appassionante documentario realizzato nei dintorni di Bucarest, hanno senz’altro il merito di creare contrapposizioni dialettiche forti, decise, mettendo in discussione con intelligenza e senza pregiudizi i cardini della nostra vita comunitaria.
Stefano Coccia