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A volte nel buio

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VOTO: 7.5

Una bucolica “danse macabre”

Le oltre due ore di durata non sono certo una passeggiata in scioltezza, per un film di genere (o magari concepito a ridosso del genere) che non ha certo nel ritmo trascinante o nella ricerca dello spavento a buon mercato il suo cavallo di battaglia. Eppure, vi è qualcosa di magnetico che attrae inesorabilmente nelle immagini di A volte nel buio, il lungometraggio di Carmine Cristallo Scalzi da noi scoperto grazie al Science + Fiction 2021; presentato peraltro all’interno di “Spazio Italia“, fucina di scoperte quanto meno interessanti, se si considera la simultanea presenza di Salvadis, lo zombie movie anomalo e fortemente geolocalizzato di Romeo Toffanetti.

Tornando alla così peculiare poetica di A volte nel buio, sospesa tra atmosfere horror ed elegia contadina, ad imporsi sono sin dall’inizio un’accentuata dimensione contemplativa, la formula del racconto di formazione tendente al nero e il perpetuarsi di macabre ritualità. La voce fuori campo di un infante accompagna difatti lo spettatore alla scoperta di un mondo rurale arcaico, consunto, malato, respinto ai margini del Tempo, che si presenta sotto forma di comunità divisa. Da un lato la gente del villaggio, con la famiglia protagonista al centro di quello sprofondare nelle tenebre, ineluttabile, che si allargherà a macchia d’olio coinvolgendo la collettività tutta. E poi gli “stranieri”, vagamente aristocratici, avvizziti, fasciati, pustolosi, sofferenti nel fisico e nell’animo, relegati in un’antica dimora… e naturalmente assetati di sangue umano, da balordi vampiri di provincia condannati a un progressivo disfacimento, quali si rivelano nel corso delle loro scorribande notturne.

Niente di nuovo sotto al sole o sotto la pallida luce lunare? L’esatto contrario, a nostro avviso. Poiché il demiurgo Carmine Cristallo Scalzi, autore anche dell’ipnotica colonna sonora e di una fotografia a dir poco raffinata, elegiaca, umbratile, sa conferire sempre un’impronta personale alle dicotomie profonde che abitano il racconto. Ambientazioni boschive e campagnole alla Bianchini acquisiscono tratti quasi evanescenti. Volti spettrali si stagliano all’improvviso nell’oscurità. Movimenti da carillon accompagnano ritmicamente gesta malsane. Ritratti di un’infanzia turbata e di oscene vecchiaie si susseguono senza sosta. Il pulviscolo stesso pare animarsi in controluce e scuotere l’aria malferma.
Se le processioni notturne assumono per forza di cose un contorno misterico, alquanto maligno, sono le azioni diurne di stralunati personaggi appartenenti a entrambe le fazioni (una galleria di volti e fisicità di notevole effetto) ciò che indirizza maggiormente l’estetica morbosa di un film, che tra falci nei campi e sadici dottori sembra rimandare persino all’abbagliante ambiguità morale del Vampyr di Dreyer. Fino a comporre quella danza macabra che specie nei frangenti più surreali sprigiona un’oscurità ammaliatrice.

Stefano Coccia

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