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A Hidden Life

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VOTO: 8

Franz e Franziska

Ritorno a un cinema narrativo, dal grande respiro epico, di cultura pacifista per Terrence Malick, che torna in concorso al Festival di Cannes 2019 con A Hidden Life raccontando la vicenda realmente accaduta di Franz Jägerstätter, obiettore di coscienza austriaco che rifiutò l’arruolamento nell’esercito del Terzo Reich e per questo fu condannato a morte, con sentenza eseguita con ghigliottina il 9 agosto 1943. Figura per la quale è in corso un processo di beatificazione. Raccontare questa vicenda significa per l’ascetico regista tornare alle atmosfere di La sottile linea rossa e The New World – Il nuovo mondo, leggendola come crocevia delle antinomie morali, filosofiche e religiose sulle quali l’uomo da sempre si interroga, il Bene e il Male, Gesù Cristo e Hitler. A Hidden Life utilizza quel meccanismo di stream of consciousness che fa parte del bagaglio stilistico del regista, i pensieri liberi e le voci interiori. Per questo ha senso che il film sia parlato in inglese, un linguaggio universale che astrae la vicenda, svincola il film da un approccio meramente naturalistico di imitazione pedissequa della realtà. Approccio che Malick usa invece per i nazisti, gli ufficiali, i burocrati o anche solo i simpatizzanti, unici a parlare in tedesco nel film, a essere come tali storicizzati e archiviati.

Ancora una volta il regista indaga l’essere umano come portatore di un conflitto tra natura e cultura. La prima è rappresentata dalla Heimat del protagonista, il borgo contadino operoso, fatto di poche case di contadini all’ombra del campanile, il comune di Sankt Radegund nell’Alta Austria. È una dimensione fatta di pendenze, di ripidità, di prati verdi, di sfondi montuosi pervasi dalla bruma, dove viene a mancare la sicurezza della linearità orizzontale propria della civiltà urbana. Un mondo ai limiti, ai confini dell’abitabile e del colonizzabile scandagliato da Malick con il suo occhio galleggiante della steadycam. Come il nuovo mondo di Pocahontas, la sua natura selvaggia, la vita nella sua simbiosi dei nativi che si nutrono dei suoi frutti primari, che il regista metteva subito in contrasto con l’ars topiaria, le sculture di siepi, la natura ammaestrata del Vecchio Mondo. Così in A Hidden Life Malick mostra per contrasto le aiuole fiorite nell’abbazia nelle composizioni curate fino all’ultimo dettaglio con perizia certosina. Stessa differenza che c’è tra i dipinti semplici, rappresentazioni di una religiosità contadina, spontanea della chiesa del villaggio e la magnificenza, ma anche la severità architettonica, delle cattedrali delle città. Il percorso tra natura e cultura nel film è graduale, a tassi progressivi di antropizzazione. Passando per la caserma del primo addestramento, ancora in un paesaggio montuoso ma con delle grandi barricate artificiali, per concludersi nella grande città, nella Berlino degli edifici austeri, i quartier generali della burocrazia nazista, fino al carcere militare di Tegel, nella sua dimensione claustrofobica alla Piranesi, dove la natura è completamente cancellata. Natura che il regista rappresentata nel ciclo dell’acqua, che sgorga in forma di cascate, per essere via via imbrigliata dai ruscelli nei canali e convogliata sulla pala del mulino.
«La dialettica dell’illuminismo si rovescia oggettivamente in follia», sosteneva Theodor Adorno, e nella civiltà avanzata alberga quella banalità del male che Malick rappresenta con la burocrazia nazista, con quelle infinite pratiche, firme che devono certificare i passaggi formali dell’esecuzione capitale, che peraltro avviene per ghigliottina, quello strumento usatissimo durante la Rivoluzione Francese, l’evento storico che ha posto le basi per la nostra cultura dei diritti civili e democratici. Il male partorito da una cultura come quella tedesca che pur ha prodotto i più grandi filosofi e musicisti. Una cultura alta che nel film si identifica con il personaggio interpretato dal grande Bruno Ganz, nella sua ultima interpretazione, nel suo rapporto dialettico con Franz Jägerstätter. Una contraddizione che Malick esplora anche attraverso il medium che gli appartiene, il cinema, con estratti da Il trionfo della volontà di Leni Riefenstahl, figura attorno alla quale si è più discusso, in merito alla possibilità di separare ideologia e valore artistico. Il cinema che Malick ingloba e rielabora con un processo di distillazione. Che va da Orizzonti di gloria, con quegli ampollosi spazi settecenteschi dove si decide della guerra e di vite umane, fino al melodramma sentimentale, in stile Les parapluies de Cherbourg di Jacques Demy: la storia d’amore tra Franz e Franziska, i loro amplessi romantici sui prati, interrotta per motivi militari, il cui epilogo è il classico ultimo saluto sui binari davanti a un treno in partenza.

Giampiero Raganelli

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