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A Good American

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VOTO: 7,5

Nel nome di una sicurezza… che non c’è

La sera del 24 febbraio, al cinema Caravaggio di Roma, si è svolta l’anteprima nazionale di un documentario d’inchiesta parecchio atteso, A Good American. Ma già di mattina questo appuntamento romano si è arricchito di un momento importante: alla proiezione per i giornalisti è stata infatti abbinata una succosa conferenza stampa col regista Friedrich Moser e col cuore pulsante del film, Bill Binney, che in America è stato direttore tecnico della National Security Agency (NSA) per circa 30 anni. E che ora è venuto a raccontarci cosa non ha funzionato. In occasione dell’11 settembre 2001, certo, ma anche prima, nel corso di analoghe situazioni che hanno visto sostituirsi interessi particolaristici, soggezione nei confronti di qualche lobby potente, giochi di potere dai contorni torbidi ed altro ancora, a quello che avrebbe dovuto essere l’obiettivo primario di simili istituzioni: la sicurezza nazionale e la prevenzione di azioni terroristiche o di altre minacce armate.
Non sorprenderà nessuno, pensiamo, che tale documentario abbia come produttore esecutivo Oliver Stone. La vicenda umana e professionale di Bill Binney, che pure è potuto rimanere negli Stati Uniti a condurre le proprie battaglie contro i gangli malati del sistema, per altri versi può apparire speculare a quella di un altro personaggio ancora più eroico, Edward Snowden. Esattamente come A Good American, lavoro molto ben strutturato e reso avvincente dalla sua natura di docu-thriller, si rivela in qualche misura complementare ai due principali tentativi di portare la vicenda dello stesso Snowden sul grande schermo: Citizenfour, l’accuratissimo documentario diretto nel 2014 da Laura Poitras, e per l’appunto il valido (in quanto divulgativo) lungometraggio di fiction, intitolato semplicemente Snowden, che Oliver Stone ha realizzato più avanti.

Ma perché ci ostiniamo a sostenere che le vicende di Bill Binney ed Edward Snowden (al pari delle opere cinematografiche servite a divulgarne l’operato) siano da considerare complementari?
La coraggiosa defezione di Snowden ha aperto gli occhi al mondo intero, sulla pericolosità di un sistema di sorveglianza statunitense divenuto quasi orwelliano, essendo teso più ad esercitare un controllo capillare, morboso e conseguentemente sospetto sulla vita dei cittadini (non solo americani, peraltro) che a prevenire sul serio minacce terroristiche e di natura militare. A Good American ci spiega in pratica come si è arrivati fino a questo punto. Sì, perché già in anni precedenti all’attentato delle Twin Towers il geniale Bill Binney aveva messo a punto, con il supporto di uno staff altrettanto preparato, quel sistema di controllo, filtraggio e selezione di (meta)dati realmente importanti per i servizi di intelligence, che aveva molteplici pregi. Uno era quello di intercettare con maggiore facilità minacce terroristiche, in un mondo sempre più digitalizzato nelle comunicazioni. A tutti i livelli. Un altro era per l’appunto di assicurare, in modo anche ingegnoso, una maggiore privacy a tutti quei soggetti non coinvolti in simili azioni criminose. E l’altro, che paradossalmente ne ha causato l’accantonamento… era proprio il vantaggio di costare poco.
Potrebbe apparire assurdo. E se certa gente avesse avuto davvero a cuore il bene comune lo sarebbe senz’altro. Ma nel periodo prima dell’11 settembre 2001 alcuni cambi al vertice dell’NSA e delle gerarchie militari hanno favorito quelle lobbies che sponsorizzavano (per loro esclusivo interesse) sistemi di sorveglianza enormemente più costosi, utilizzabili poi per spiare comodamente le vite di normali cittadini (o di personaggi pubblici scomodi), ed inefficaci per giunta di fronte a reali minacce di attentati, poiché dotati di scarsa utilità pratica agli occhi degli analisti stessi. Come sia andata a finire, se ne sono accorti a New York in quell’anno terribile… e ancora una volta, di fronte all’ottusità e ai meschini interessi di certi ambienti politici e militari, il volenteroso Bill Binney si è ritrovato nei panni della Cassandra di turno, dopo essere rimasto inascoltato in gioventù (nella circostanza fu l’inetto generale Westmoreland a ignorare i suoi avvertimenti), quando con le sue abilità di decodificatore e critto-matematico aveva svelato tempi e modalità dell’offensiva del Têt, rivelatasi di importanza determinante nel corso della sanguinosa Guerra del Vietnam.
In A Good American non c’è solo un punto di vista inquietante e assai meditato, quindi, sull’11 settembre, riconsiderato qui senza fare troppe concessioni né alla versione ufficiale delle autorità statunitensi né alle conseguenze più estreme delle teorie complottistiche (una parte delle quali va comunque tenuta in considerazione, per la possibile individuazione di colpe ben più angoscianti e terribili all’interno dello stesso establishment americano) ma vi è uno sguardo più ampio, articolato, che non può fare a meno di destare nuove curiosità nello spettatore.

Stefano Coccia

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