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2551.01

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VOTO: 7

Un monello tra gli emarginati del sottosuolo

Correva l’anno 1921 quando Charlie Chaplin portava sul grande schermo ottenendo un successo planetario il suo primo lungometraggio dal titolo Il monello. Per molti è stato un modello da imitare nei decenni avvenire, altri lo hanno citato direttamente o indirettamente, altri ancora gli hanno voluto rendere omaggio in maniera personale. Tra questi c’è Norbert Pfaffenbichler che con 2551.01, primo capitolo di una futura trilogia, ha preso in prestito la storia e i personaggi dell’esordio chapliniano per poi rielaborarli, stravolgerli e plasmarli a immagine e somiglianza del suo cinema e del suo modo di fare e concepire la Settima Arte.
Il risultato, premiato con una menzione speciale al Sitges 2021 e presentato in concorso alla 42esima edizione del Fantafestival, non è un remake nel senso letterale e tecnico del termine, bensì una rilettura in chiave steampunk distopico come ama definirla l’autore o una favola politica “apocalypse punk” come invece è stata battezzata dalla critica e dagli addetti ai lavori. Entrambe le definizioni ci sembrano calzare a pennello, poiché riassumono alla perfezione quelle che sono l’identità, l’approccio alla materia e il mash-up di generi chiamato in causa per dare forma e sostanza narrativa, drammaturgica ed estetica a questo oggetto audiovisivo fuori norma e dagli schemi produttivi classici. In tal senso 2551.01 non percorre le vie tradizionali, ma sceglie quelle autarchiche di un esperimento espressionista contemporaneo dall’impostazione sperimentale e a tratti videoartistica, che propone una versione distopica e punk della storia del vagabondo e del bambino. Il tutto calato in uno spaventoso futuro non meglio identificato, che vede il mondo spaccato in due fazioni: sulla superficie dominano le forze di polizia, mentre nel sottosuolo sopravvive invece una casta di derelitti, dai volti costantemente coperti da maschere fin dalla più tenera età. Tra questi c’è Ape-man che, dopo avere salvato un bambino durante un violento scontro tra manifestanti e forze dell’ordine in assetto antisommossa, si avventura con lui in un viaggio surreale in un mondo sotterraneo popolato da grotteschi personaggi figli di un’umanità derelitta e senza speranza, in cui l’unica cosa che conta è il legame che i due riescono a creare.
In questo groviglio ansiogeno e clastrofobico di trappole e labirintici lunghi cunicoli poco illuminati, il regista austriaco ambienta una parabola sull’emarginazione umana e sul degrado imperante. Per farlo si avvale degli stilemi propri del cinema espressionista tedesco, mescolandoli senza soluzione di continuità ed estrema libertà con il kammerspiel, lo slapstick e l’estetica orrrorifica di cineasti degli anni Trenta come Murnau, Wiene o Lang. 2551.01 è da un punto di vista formale l’incontro/scontro di tutto questo con un’overdose di luci stroboscopiche, immagini disgustose, dissezioni, maschere inquietanti e torture che  richiamano alla mente le atrocità di Abu Ghraib o gli esperimenti nazisti. Una cloaca marcia e malata virata in B&N, viola, blu o seppiato, incastonata in un 4:3 che rende ancora più asfissiante la fruizione, popolata da esseri alla deriva ai quali Pfaffenbichler ha tolto la parola con lo scopo di ottenere un film muto accompagnato da un lavoro accurato di sound design, da partiture musicali cangianti e da gesti accelerati e decelerati di figure senza volto.
Ciò fa di 2551.01 un’opera ostica da amare o odiare senza via di mezzo, difficile da digerire per quanto concerne il pubblico medio, che nella sua autorialità cerca di intercettare platee e spettatori di nicchia o capaci di abbandonarsi a visione “altre” che non siano allineate alle regole d’ingaggio del mercato e del circuito ufficiale.

Francesco Del Grosso

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