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211 – Rapina in corso

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VOTO: 4.5

Una rapina intrisa di retorica e non convincente

Parlare di rapine e di sequestri di ostaggi nell’attuale panorama cinematografico e seriale non può che richiamare alla mente il recente fenomeno televisivo La casa de papel. Ma nulla sarebbe più sbagliato che approcciarsi a 211 – Rapina in corso, scritto e diretto da York Alec Shackleton (nella stesura del copione coadiuvato da John Rebus), aspettandosi di vedere qualcosa di simile alla serie creata da Álex Pina.
Innanzitutto un appunto per lo spettatore: la locandina italiana del film può trarre in inganno e far credere di stare per assistere a una proiezione in cui Nicholas Cage avrà il ruolo del negoziatore. Peccato che in 211 – Rapina in corso non ci sia neanche l’ombra di una negoziazione o simili. Il film è tratto da una vicenda realmente accaduta, una rapina in banca avvenuta a Los Angeles nel 1997 e passata alla storia per essere stata particolarmente efferata e aver causato molte vittime, la maggior parte delle quali tra gli agenti della polizia.
Quattro ex agenti delle forze speciali statunitensi, intenzionati a riprendersi almeno parte dei proventi di alcune precedenti operazioni illecite a Kabul, organizzano e mettono in atto una rapina in una banca a North Hollywood, facendo diversi ostaggi. Ma non hanno fatto i conti con una volante di passaggio che ostacolerà i loro piani, facendo precipitare la situazione.
C’è tanta violenza nel film di Shackleton. La sequenza iniziale, percorsa da una calma apparente bruscamente spezzata da molteplici esplosioni, è d’impatto. I morti e i feriti durante le sparatorie non si contano e nemmeno le donne e gli anziani vengono risparmiati. Soprattutto non vengono risparmiati da una cinepresa che riprende tutto senza eccezione e senza alcun pudore. Alcuni potrebbero rimanere scandalizzati, altri invece potrebbero apprezzare questo crudo realismo, ma la verità è che 211 – Rapina in corso appare frettoloso e mal costruito, una sorta d’involucro contenente personaggi privi di spessore e temi importanti, come il razzismo e il bullismo, trattati in modo banale e palesemente inadeguato.
Le numerosi e brutali uccisioni non sono accompagnate da un sostrato di riflessione più profonda sull’evento in sé e sulle implicazioni che esso comporta. Il nome di Cage, quest’ultimo peraltro non in splendida forma, non basta a dare linfa e respiro a una figura che non supera la prova dello schermo, rimanendo invischiata in una trama tutto sommato semplice e priva di colpi di scena, figlia di uno script infarcito di una retorica a tratti insopportabile.
Vi è certamente tanto machismo americano che mal si coniuga con un’altra componente del film, forse l’unica davvero interessante e attuale, quella della consapevolezza della ferocia e della violenza di cui è intrisa la società d’oltreoceano, dell’insano fascino che essa può esercitare filtrata attraverso i video ripresi dai telefonini, filtrata attraverso piccoli schermi, mentre lo schermo più ampio e largo di Shackleton la mostra in tutto il suo orrore. Senza però riuscire a spingersi oltre, in un film che tra l’altro vede rapidamente eclissarsi il profilo dell’investigatrice dell’Interpol, inizialmente potenziale main character, e chiude rapidamente, come rapidamente si svolge la vicenda, con poche e scarne battute dell’agente Chandler che auspicano la sostituzione delle immagini di un passato doloroso con quelle di un presente e di un futuro positivi. Lo stesso futuro positivo che auguriamo, in ogni caso, a Shackleton, dopo questa sua non convincente prova.

Marco Michielis

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