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2067

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VOTO: 4

Fino all’ultimo respiro

Fin dall’alba della fantascienza, i viaggi avanti e indietro nel tempo hanno alimentato l’immaginario tanto della letteratura quanto della Settima Arte, e di riflesso dei rispettivi fruitori. Nello specifico del cinema è impossibile stilare una lista dettagliata in grado di raccogliere la sterminata produzione che sino ai giorni nostri e alle varie latitudini ha permesso al o ai personaggi di turno di avventurarsi in odissee spazio-temporali attraverso macchine, flussi, buchi neri o portali di ogni sorta. Viene da sé che il tutto sia diventato, data l’assidua frequentazione da parte di sceneggiatori e registi, un vero e proprio must del genere in questione, al quale si ricorre ogniqualvolta si chiama in causa il tempo e la possibilità di tornare nel passato o di andare nel futuro per modificare gli eventi del presente. Esattamente quello che è costretto a fare il protagonista di 2067, Ethan Whyte, che per salvare l’amata da morte certa e la specie umana dall’estinzione decide di fare un salto temporale di 400 anni per trovare una cura.
Ma prima del suddetto balzo riavvolgiamo le lancette per tornare al presente storico in cui è ambientato il film di Seth Larney, presentato nel concorso della 20esima edizione del Trieste Science + Fiction Festival. La pellicola del cineasta australiano, qui alla sua seconda esperienza sulla lunga distanza dopo l’action-drama Tombiruo e una significativa carriera nel campo degli effetti visivi, ci porta proprio nell’anno che presta il titolo al film, il 2067, con la Terra finita sull’orlo del collasso. Dopo anni in cui quasi nulla si è fatto per fermare il cambiamento climatico, la vita vegetale si è estinta e la quantità di ossigeno si è drammaticamente ridotta. L’umanità è minacciata da un letale “mal d’ossigeno”, in quanto l’ossigeno artificiale, unica fonte di aria respirabile, sta facendo ammalare milioni di persone. Senza cure in vista, la Chronicorp, leader mondiale nella fornitura di ossigeno sintetico, ha costruito una macchina quantistica per sondare il futuro alla ricerca di un contatto con i nostri discendenti. E la risposta arriva: da 400 anni nel futuro, un messaggio che dice semplicemente “Mandate Ethan Whyte”.
È fin troppo chiaro dove voglia andare a parare l’autore e quale sia il bersaglio morale al quale mira il film: 2067 si fa portavoce dell’ennesima denuncia del disastro ambientale e dello scellerato operato dell’uomo nei secoli, che ha portato il pianeta e chi lo popola indegnamente ad essere vittime e carnefici di se stessi. Non è la prima volta che la fantascienza nelle sue diverse espressioni cinematografiche ha voluto farsi carico di una tematica dal peso specifico così elevato, ma nel caso della pellicola in questione quel peso ha finito con lo schiacciare plot e personaggi. I motivi della débâcle sono tanti, ma ci limiteremo a mettere in evidenza la pochezza strutturale e l’inconsistenza delle argomentazioni a sostegno della narrazione e della drammaturgia.
La scrittura si fa portatrice di una storia nella quale convergono temi alti, come appunto la difesa di Madre Natura e l’importanza del tempo che altro non sono che degli escamotage per mettere insieme le parti del racconto, con il dramma sentimentale e il rapporto padre-figlio che dovrebbero ma non riescono a generare emozioni. Si fa fatica infatti a rintracciare sussulti in tal senso, quelli presenti invece in operazioni analoghe come Contact o Frequency. Le due componenti infatti fanno a cazzotti l’una con l’altra, facendo letteralmente a sportellate in una timeline che a conti fatti registra pesantezza e prolissità, soprattutto sul piano dialogico e della scorrevolezza della narrazione. A complicare le cose ci si mette anche la carezza evidente di ritmo e lo sviluppo approssimativo nella caratterizzazione dei personaggi, a cominciare da quello del protagonista, al quale non è sufficiente lo sforzo interpretativo di Kodi Smit-McPhee.

Francesco Del Grosso

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