Testimoniare la perdita attraverso le immagini
Attuale come i tragici sviluppi della guerra nell’enclave del Nagorno Karabakh o Artsakh in lingua armena, universale come la sempiterna questione del poter almeno piangere i propri cari, dell’avere la certezza di quale sia stato il loro destino e ritrovare i resti di quelle vite spezzatesi drammaticamente, così da poter da loro una degna sepoltura. Queste sono le coordinate essenziali di 1489, documentario dal titolo enigmatico che con quel numero potrebbe far pensare a qualsiasi cosa, per esempio a una data, ma che fa riferimento invece a un asettico, freddo metodo di catalogazione dei resti umani rinvenuti sul campo di battaglia. Quasi più un atto di ricongiungimento famigliare post mortem che un semplice film, quello realizzato dall’artista (divenuta film-maker quasi per una necessità di carattere etico, ma con una formazione primaria da musicista) armena Shoghakat Vardanyan…
Il fatto che questo suo lavoro, portato avanti istintivamente e senza avere alle spalle un percorso cinematografico tradizionale, al 35° Trieste Film Festival sia stato preferito ad altri dotati di un impianto produttivo, tecnico e stilistico ben più solido, è indice a nostro avviso di un’acuta sensibilità umanistica da parte di chi lo ha voluto premiare. Difatti il Premio Alpe Adria Cinema offerto da Opificio Neirami e assegnato dalla giuria composta da Graziella Bildesheim, Dmitrij Gluščevskij, Vladan Petković è andato proprio al documentario 1489 di Shoghakat Vardanyan, con la seguente motivazione:
“Realizzato da un’artista che non ha avuto una formazione cinematografica ma che dimostra un innegabile talento grezzo e un istinto impeccabile, questo film è un pugno nello stomaco, crudo e senza fronzoli. Un resoconto incredibilmente coraggioso e intimo di una delle situazioni più difficili in cui una famiglia possa trovarsi, il film getta lo sguardo sulle ferite aperte della regista e dei suoi genitori. Le loro ferite non si rimargineranno mai del tutto, ma la loro rappresentazione riesce ad offrire speranza e catarsi alle migliaia di persone che subiscono simili tragedie in tutto il mondo.”
Scene di vita famigliare prima e dopo la certificazione del lutto. Una personale detection, dai contorni disperati, condotta dalla regista presso tutti coloro da cui si poteva sperare di avere notizie sul conto del ragazzo disperso al fronte, suo fratello Soghomon (a sua volta studente e musicista di appena 21 anni), tra cui ovviamente quegli ambienti militari dove i commilitoni tornati vivi dagli scontri con gli Azeri hanno in serbo per lei solo qualche indicazione frammentaria, scarna, per niente risolutiva. E poi la tragica conferma di quanto avvenuto. Coi genitori di Shoghakat e Soghomon ripresi in una delle scene più strazianti dell’intero documentario, attraverso alcuni piani ravvicinati, nell’atto terrificante e comunque profondamente umano di accarezzare quelle povere ossa, rimaste a testimoniare l’esistenza di un giovane che fino al 2020 (quando l’offensiva azera aveva fatto riprende le ostilità nella regione) viveva e suonava il pianoforte in quella stessa casa.
Ecco, laddove la televisione e altri media (vedi il recente conflitto russo-ucraino o quel poco che riesce a trapelare da Gaza bombardata e assediata) ci hanno purtroppo abituato a una sorta di “pornografia del dolore”, a uno sguardo tanto crudo quanto meccanico e asettico, il cinema ancora una volta ci riporta all’essenza delle cose, un’essenza colta sia nella sua radice prettamente materica che per le sue forti implicazioni spirituali. Tutto ciò grazie al coraggio, ai modi rispettosi e alla forte interioritù della regista Shoghakat Vardanyan e dei suoi famigliari, in grado di mostrarci senza alcun filtro che non sia quello della dignità umana il peso insostenibile della loro perdita.
Stefano Coccia