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VOTO: 7

Sotto un manto di stelle

Colpito dal cielo stellato “incongruo” in una scena notturna di Stromboli di Rossellini visto a lezione, Johann Lurf ha cominciato a mettere insieme mentalmente – componendo una lista di 2400 titoli – tutte le immagini di cieli notturni stellati della storia del cinema. Il film realizzato a partire da questa ossessione consta invece di estratti da 550 film (tra cui Paisà di Rossellini e Hercules di Luigi Cozzi) di generi ed epoche differenti, montati rigorosamente in ordine cronologico, dal cinema delle origini sino ai blockbuster dei giorni nostri, privi di sottotitoli, ma ricchi di altre informazioni indirette come l’ambientazione geografica e storica, le modalità di realizzazione della scena, lo stato d’animo associato alle diverse rappresentazioni del firmamento. Il risultato è , un simbolo grafico universale che sta a indicare una delle tante protagoniste del manto stellato con il quale l’autore riempie di volta in volta lo schermo di suggestioni, immagini e lampi di poesia.
Sinossi alla mano è chiaro che l’errore che non si dovrebbe commettere quando ci si misura con un’opera come quella firmata dal cineasta austriaco è quella di provare a canalizzarla e circoscriverla in un genere (pre)definito. Questo perché il lungometraggio d’esordio di Lurf, presentato nel concorso della 54esima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro dopo la première alla Viennale 2017, per sua stessa natura sfugge a qualsiasi tentativo del fruitore di turno di incanalarlo in un dato filone, genere o catalogazione, comprese le macro-aree. Ed è questa la sua forza, ossia quella di cercare di essere non un’opera come tante, piuttosto un’opera come nessuna. E a giudicare da quanto visto sullo schermo ci è riuscita.
Tecnicamente potrebbe essere un film di montaggio o un esemplare di cinema sperimentale, o ancora un saggio che vira in direzione di una video-poema. Potrebbe essere questo o molto di più, ma l’unica certezza è che si tratta di un’esperienza sensoriale e in quanto tale va vissuta e fruita, rigorosamente in una sala cinematografica per poterne apprezzare le vere potenzialità. Un’esperienza, quella offerta dal regista austriaco, che lascia il segno e al quale ci si deve abbandonare completamente, come davanti a un flusso magnetico di immagini e suoni che incanta e che rimane impressa nella retina quanto nella mente dello spettatore.
è un “oggetto filmico” non identificato e non identificabile, un “UFO cinematografico” con il quale entrare in sintonia, accettandone senza riserve le regole del gioco, compresa quella di non accompagnare le parti dialogiche dei vari estratti (di durata variabile) con sottotitoli, lasciando al materiale sonoro originale il compito di comporre una sorta di babele linguistica. Al contrario, si può trasformare in una materia respingente da accantonare da tutti coloro che non sono disposti ad accettarle. In tal senso, l’autore non scende a compromessi, portando avanti la sua idea senza retrocedere di un passo. Di fatto, il suo è un dentro o fuori, che non contempla la possibilità di un incontro a metà strada tra il mittente e il destinatario. Sta al singolo spettatore capire da quale parte stare, quale rapporto instaurare con il film in questione, ma in entrambi i casi quella di Lurf è un’opera che non lascia indifferenti, perché che piaccia oppure no provoca in chi lo guarda una reazione: un’ipnotica attrazione o un drastico allontanamento. Prendere o lasciare. Noi prendiamo.

Francesco Del Grosso

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