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Zama

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VOTO: 6.5

Un putrido passato coloniale

Lucrecia Martel, regista e sceneggiatrice argentina molto quotata in patria e nel mondo, ha patito molte difficoltà nel riuscire a trasporre in immagini il romanzo di Antonio di Benedetto, “Zama”. Dal suo ultimo lungometraggio, La mujer sin cabeza, sono trascorsi ben 9 anni, quasi un classico periodo kubrickiano. Quest’attesa di quasi due lustri, per ripartire e ritornare dietro la macchina da presa, avendo già dimostrato con le sue opere precedenti il proprio valore, ha grottescamente una certa affinità con la vicissitudine del protagonista Don Diego de Zama, che seppure abbia dimostrato il suo merito, non gli viene data la carta reale per ripartire e tornare nel suo mondo. Queste traversie produttive accorse alla Martel, sono già di per sé una storia cinematografica a parte, che confermano come certo cinema in certe zone del mondo sia ancora difficile da realizzare. Le differenti case di produzione che sono intervenute all’avallo del progetto, e che riempiono i titoli del film, sono la dimostrazione che la grande Argentina e l’America Latina in generale, non abbiano ancora una propria forza produttiva per sostenere progetti culturali di questo tipo, seppure la pellicola sia costata meno di 4 milioni di dollari. Fortunatamente Lucrecia Martel non ha subito la stessa sorte accorsa al protagonista Don Diego, e la sua ostinazione è stata premiata.

Tratto dall’omonimo romanzo di Antonio di Benedetto, pubblicato nel 1956, e con cui l’autore fu inserito tra i massimi scrittori argentini del Novecento, al primo sguardo, immergendosi lentamente nel mondo (remoto) scelto dall’autrice, Zama segna un cospicuo distacco con le altre tre pellicole in precedenza realizzate, però la differenza si rivela con il trascorrere filmico solamente superficiale. In questa nuova opera l’ambientazione in un secolo lontano, e un personaggio maschile come protagonista, sono gli elementi più innovativi che marcano un cambio nel cinema dell’autrice, ma sono mutamenti che non intaccano le usuali indagini cine-antropologiche che gli interessano. La Martel, abituata a creare le proprie storie filmiche, nel confrontarsi per la prima volta con un testo non suo, prende il descrittivo e articolato romanzo e lo sfronda per conservare solamente l’essenziale. Conserva quei tratti sufficienti per onorare il romanzo e per proseguire le proprie argomentazioni, narrative e visive, già esposte nelle opere precedenti. Zama è lo spaccato sociale di un remoto passato dell’America Latina poco conosciuto, di un territorio ancora vergine ma già divorato dalla brama di potere dei colonizzatori spagnoli. Un mondo ricco ma già putrescente. Don Diego de Zama, il perno di questa vicenda, è un personaggio sperduto, inserito nell’ambiente ma distante e isolato dallo stesso. Lo vediamo già all’inizio stagliato, ritto ma fragilmente meditabondo, sulla spiaggia. Il suo sguardo va verso l’orizzonte, verso la sua casa e la speranza di potervi tornare. E questa solitudine e inquietudine saranno presenti fino all’ultima inquadratura. E le sofferte vicende del personaggio fungono anche da tramite per descrivere quello che accade intorno. La Martel fissa Zama che osserva spesse volte le azioni dei – loschi – personaggi che gli gravitano, a suo malgrado, intorno. Seppure la storia non è narrata dalla voce del protagonista, Zama diviene quasi un diario memorialistico personale di quell’epoca. Le scene ricche di colori e suoni, ma al medesimo tempo putride e corrotte, sono fotografata dallo sguardo di Lucrecia Martel, però filtrate attraverso il disgusto morale di Don Diego de Zama. La decomposizione, tema caro alla regista, è sia fisica e sia sociale. Il protagonista lentamente viene divorato dall’abbrutimento e dalla tristezza che lo affliggono, vivendo in un luogo eticamente infettivo. In questa quarta – patita – opera, lo stile della Martel diviene raffinato, con le scene che sono composte come dei “tableau vivant” d’epoca. Un’attenta cura fotografica, anche merito di Rui Poças, che ammalia, ma che frena anche le passioni che potrebbero scaturire dalla narrazione. Una sensazione che ricorda I duellanti di Ridley Scott, in cui la seducente e perfetta ricostruzione storica, raffreddava la storia. Però, restando in ambito cine-memoriale, Zama, con la sua ambientazione malsana e i marci personaggi, ricordano maggiormente i film coloniali di Werner Herzog, soprattutto nel tragico finale.

Roberto Baldassarre

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